La tana, la regista Beatrice Baldacci e il cast raccontano il film

Presentato il lungometraggio d'esordio di Beatrice Baldacci, dal 28 aprile in sala.

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Un esordio intenso e promettente, quello di Beatrice Baldacci con La tana, prodotto da Andrea Gori e Aurora Alma Bartiromo (in collaborazione con Rai Cinema e NABA- Nuova Accademia di Belle Arti) per Lumen Films e realizzato nell’ambito di Biennale College. Visto a Venezia 78 e già vincitore del Premio Raffaella Fioretta per il cinema italiano ad Alice nella Città, il film uscirà nelle sale per la PFA Films di Pier Francesco Aiello dal 28 aprile. Al centro, l’amore tra due giovani molto diversi, Giulio (Lorenzo Aloi) e Lia (Irene Vetere, che ha ottenuto un Fabrique du Cinéma Award per questa interpretazione).

Lui, diciottenne, sta trascorrendo l’estate in campagna con i genitori, quando scopre che nel casale vicino, da tempo abbandonato, è tornato ad abitare qualcuno. Trova infatti Lia, una ragazza più grande, dal carattere spigoloso, che ora sembra respingerlo ora ne cerca la compagnia. Ma Lia nasconde anche un segreto legato al suo ritorno al casale, e che riguarda la madre malata (Héléne Nardini). Un tema già trattato dalla regista (e sceneggiatrice con Edoardo Puma) nel precedente corto Supereroi senza superpoteri (Menzione speciale Fedic ad Orizzonti 2019), e in cui si ritrovano motivi autobiografici: «Per me la scrittura è una terapia», ha detto Baldacci durante l’anteprima de La tana a Roma, «esorcizzo quella sofferenza e quel dolore affidandoli a dei personaggi, e in questo caso a Lia».

Ma il film è un’opera personale anche nella forma, con elementi che risaltano come l’uso del formato 1:37 e il ricorso frequente ai silenzi non riempiti dal commento musicale. «Mentre scrivevamo il film», racconta la regista, «avevo già in mente che questo sarebbe stato il formato. A volte quando si usa un formato così stretto è per restituire un senso di oppressione. Per me invece è come se fosse una lente di ingrandimento sulle emozioni dei personaggi». E a proposito del silenzio, aggiunge: «Non abbiamo mai affogato il film con tante parole: quando i personaggi parlano è perché hanno veramente qualcosa di preciso da dire. La stessa cosa per le musiche», realizzate con Valentino Orciola, «quando la musica c’è, è perché c’è un’esplosione emotiva nel film».

Una scelta stilistica che si è riverberata anche nelle performance degli interpreti. Secondo Irene Vetere «il silenzio spaventa lo spettatore nel momento in cui guarda un film, ma forse spaventa anche gli attori», e però alla fine si rivela «una risorsa», spingendo chi recita a valorizzare maggiormente altri strumenti espressivi, come «sguardo, gesti, postura». Sulla stessa lunghezza d’onda Lorenzo Aloi: «Quando si affronta il silenzio ci si deve veramente concentrare su alcuni dettagli del nostro corpo e di come comunichiamo, dalla direzione degli occhi al respiro, una serie di elementi che fanno emergere il sottotesto». Per Hélène Nardini, poi, il silenzio ha una specificità ulteriore, legandosi alla difficile condizione del suo personaggio: per lei dunque è stato fondamentale «comprendere che anche il silenzio, e questo tipo di silenzio, ha un suono».

Non meno importante lo sguardo sulla natura che circonda i protagonisti, e che a sua volta, spiega Baldacci, «è come se fosse un personaggio: a lei è affidato il compito di raccontare che la vita non finisce con la morte, che le cose rinascono sempre dopo che sono finite. E questa ciclicità all’interno del film è essenziale». Elemento metaforico chiave in questo senso risultano essere «i fiori, qualcosa di molto bello e molto delicato, che un attimo c’è e l’attimo dopo no».

E, a proposito di vita e morte, La tana tocca anche il nodo attualissimo dell’eutanasia. Tra i numerosi film che si sono confrontati in un modo o nell’altro con l’argomento, la filmmaker cita Amour di Michael Haneke come la fonte più significativa d’ispirazione, per come affronta la questione «in modo non politico, ma soprattutto emotivo, qualcosa di simile a quello che volevamo fare noi». Un tema che la regista affronta senza reticenze, come quello della corporeità: «Credo che ci sia un po’ di paura nel raccontare il corpo», afferma al riguardo, «è qualcosa a cui dobbiamo abituarci di nuovo».