Era fuori concorso a Venezia 80, forse avrebbe meritato anche qualcosa di più Making Of, commedia sul mondo del cinema diretta da Cédric Kahn, regista e attore poliedrico, che proprio l’anno scorso è passato dal dramma processuale de Il caso Goldman a questa sorta di candid camera della vita da set. Comune denominatore è la politica, che nella vita di Kahn non manca mai. E neanche in quella del suo alter ego sullo schermo, Simon, regista francese alle prese con il suo nuovo film – interpretato da Denis Podalydès, Jonathan Cohen, Stefan Crepon ed Emmanuelle Bercot – che racconta della lotta degli operai decisi a non far chiudere la loro fabbrica.
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Ma le cose iniziano subito a girare per il verso sbagliato. La produttrice vuole riscrivere il finale e se Simon non accetta è pronta a decurtare il budget del film. La troupe entra in sciopero, il suo protagonista è una tronfia star piena di sé. L’unica cosa che funziona è il dietro le quinte che sta girando un appassionato stagista. Un film che potrebbe salvare il film. E del quale abbiamo parlato con il vero regista in vista dell’uscita in sala del 26 settembre, grazie alla distribuzione di I Wonder Pictures.
Cédric Kahn, ci dica quando è successo, perché la storia di Making Of è evidentemente autobiografica
A dire il vero è un concentrato di varie catastrofi capitate a me e ad altri colleghi nel corso degli anni. Il film è una cari- catura, ma ti assicuro che la realtà è anche peggiore.
È quello che chi non lavora nel cinema non capisce: che è un inferno. Ma scherzi a parte, Making Of è una sintesi di quello che vuol dire essere sul set. Ma per chi lo vive quotidianamente, com’è fare questa vita oggi?
In realtà la mia idea era quella di mostrare il cinema come un luogo di lavoro come un altro, e di raccontare la grande contraddizione del regista, che si sente prima di tutto un artista, ma che al tempo stesso è anche a capo di un’azienda, perché fare un film significa creare un prodotto a cui contribuiscono centinaia di persone con il loro lavoro. E nel caso di Simon, e anche nel mio caso, parliamo di un cineasta dai forti valori di sinistra che si trova a dover quasi abiurare per poter far funzionare l’azienda film. Il rapporto tra arte e soldi non è più forte oggi di quanto non lo fosse trent’anni fa, forse è diverso, ma le dinamiche non cambiano.
Sempre però mantenendo un tono leggero
Pensavo fosse molto importante raccontare questa storia in forma di commedia, anche perché è un genere che si può declinare in molte ma- niere diverse, tutte molto efficaci ai fini del tono che volevo dare al film.
Lei è anche un bravissimo attore, altra categoria a cui non fa sconti in questo film
L’attore è per definizione un egoista, è come un bambino che vuole essere sempre al centro dell’attenzione. Ma al tempo stesso è anche il valore maggiore di un film, in qualche modo rappresenta il capitalismo, mettendo il tutto su un piano squisitamente politico.
Parlando di finanza, mercato, politica, il panorama cine- matografico si sta evolvendo a grande velocità. Ci sono le piattaforme, grandi gruppi che acquisiscono produzioni più piccole, e alla fine in tutta questa situazione chi ci va a rimettere è proprio il regista. Come vede il presente e il futuro del suo lavoro?
Personalmente mi sento un dinosauro, lavoro in un angolo, in piccolo, libero, creativo, e da questo punto di vista ho il privilegio di essere tollerato nella mia nicchia autoriale che mi tengo ben stretta, perché è quella in cui mi sento più a mio agio. In più, ammetto di essere molto francese da questo punto di vista, perché dato che c’è una efficace politica protezionista nei confronti del nostro cinema, non ho mai avuto bisogno di trattare con le piattaforme. Il cinema, finché potrò, sarà la mia casa.