Peter Bogdanovich è morto. Aveva 82 anni ed è stato uno dei più grandi cineasti del cinema americano, nonché uno studioso di cinema come pochi. Le sue conversazioni con Fritz Lang, John Ford, Howard Hawks, Orson Welles, Fritz Lang sono testi fondamentali che chiunque affermi di fare o scrivere di cinema deve avere letto.
L’ultimo spettacolo (The Last Picture Show, 1971) è uno dei film più belli che siano mai stati girati, e nella filmografia di Bogdanovich ce ne sono almeno altri cinque che sono solo un gradino sotto.
Nato a Kingston, New York, figlio di intellettuali e artisti (suo padre Borislav Bogdanovich, serbo, era un apprezzato pittore e pianista), iniziò come critico cinematografico, come Francois Truffaut, per poi entrare nel mondo nel cinema grazie a Roger Corman, di cui fu assistente e che produsse il suo esordio alla regia, Bersagli (Targets, 1968).
Il film, storia di un vecchio attore di film horror (un meraviglioso Boris Karloff) che si trova a indagare su un misterioso cecchino che sta terrorizzando Los Angeles, è un’opera influenzata dal cinema europeo e in particolare dalla Nouvelle Vague.
Si capisce subito che Bogdanovich è un talento naturale, la conferma arriva tre anni dopo con L’ultimo spettacolo, un film incredibile, sospeso tra classico e moderno, un’ode al cinema e alla vita nel Texas di provincia degli anni Cinquanta che si specchia in un paese che allora stava soffrendo il suo periodo più tragico, dalla morte di Kennedy alla guerra in Vietnam.
Bogdanovich ha sempre avuto una grande fascinazione per il passato, lo dimostrano film come Paper Moon, Nickelodeon e anche i suoi ultimi lavori, The Cat’s Meow e She’s Funny that Way, deliziosa commedia romantica che sembra arrivare direttamente dagli anni Quaranta.
La commedia classica era la sua grande passione, il suo film che preferiva era …e tutti risero, nel cui cast faceva parte il grande amore della sua vita, la modella Dorothy Stratten, uccisa poco dopo le riprese del film dall’ex marito. Un colpo da cui il regista non si è mai ripreso.
“Quel giorno la mia carriera si è schiantata al suolo, perché cose di questo tipo ti cambiano la vita e quindi anche quello di cui è fatta la vita”.
Mi disse questa frase nel 2001 a Locarno, dove andò a presentare The Cat’s Meow, comprendendo il dolore che ha pervaso tutta la sua carriera e la sua vita dopo il 1981.
Un dolore che trasforma in vita raccontando la storia vera di Rocky Dennis nel bellissimo e struggente Dietro la maschera, che regala a Cher il premio per la migliore interpretazione a Cannes nel 1985, e tornando a Texasville cinque anni dopo, per il sequel de L’ultimo spettacolo, film che oggi andrebbe rivisto e riscoperto.
Così come Quella cosa chiamata amore, un’altra commedia romantica e amare che vede protagonista un cast di giovani talenti da cui Bogdanovich riesce a trarre splendide interpretazioni, da Samantha Mathis a River Phoenix, fino a una giovane Sandra Bullock.
Con Peter Bogdanovich se ne va uno degli ultimi registi classici di Hollywood, che ha raccontato il cinema sullo schermo e sulla pagina scritta come forse solo il suo amato Truffaut riuscì a fare.
Amava dire che “i film sono inscatolati, una volta che li hai girati, montati e finiti restano lì, conservati. L’importante è che quando li inscatoli siano freschi, perché lo saranno anche quando li togli dalla confezione“.
I film di Peter Bogdanovich saranno sempre freschi, come appena fatti.