Il Bambino Nascosto, intervista a Roberto Andò

Abbiamo incontrato Roberto Andò a Roma alla presentazione del film

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Dal cinema al teatro, all’opera lirica, la professionalità, il rigore e l’arte di Roberto Andò si sono espressi negli anni in svariate forme, l’ultima sua opera, Il Bambino Nascosto, è tratta dal suo omonimo romanzo (ed. La nave di Teseo), e porta al cinema, dal 3 novembre con 01 Distribution, una toccante storia che abbraccia vari aspetti umani in una Napoli quasi osservata dalla finestra di un vecchio palazzo di Forcella.

C’è l’infanzia e la criminalità, ma anche il mondo giuridico e la cultura musicale e finanche un cenno al discorso sull’omosessualità: ne Il Bambino Nascosto tutti questi temi sono vissuti attraverso l’inaspettata e delicata relazione d’amicizia tra un professore di pianoforte al Conservatorio San Pietro a Majella, interpretato da Silvio Orlando, e un bambino di 10 anni (Giuseppe Pirozzi), figlio di un camorrista. Il piccolo in fuga irrompe nel solitario isolamento in cui vive il professore per nascondersi dalla violenza del suo stesso padre.

Andò compone un racconto fatto di silenzi, di sguardi e di richiami musicali e letterari che appartengono al mondo culturale del regista, in cui la eco del linguaggio della Napoli criminale giunge solo come un pericoloso rumore di fondo.

Abbiamo incontrato Roberto Andò a Roma alla presentazione del film.

Da dove nasce questa storia?

L’ispirazione viene da lontano. Una delle cose che mi ha affascinato sin dall’inizio del racconto cinematografico è il rapporto tra generazioni. L’ho affrontato nel mio primo film, Il Manoscritto Del Principe (2000), e qui sono tornato sui miei passi attraverso una storia, delicata e cruciale, che riguarda l’infanzia. Sigmund Freud diceva che a 10 anni la vita di una persona è già determinata, Tomasi di Lampedusa diceva che a 10 anni la crosta è fatta. Questo bambino è sul punto di solidificare la sua crosta, ma ha un incontro fondamentale, dettato dalla paura e dalla necessità di salvarsi, con una persona con cui si crea un legame totalmente diverso da quello del sangue. Tra loro nasce un rapporto che ha l’intensità dell’amore, legato anche al fatto che insieme fanno un’esperienza terribile e rischiosa in poco tempo.

Il film è ambientato a Napoli, ma nella storia la città sembra vista quasi un po’ da lontano. Come mai questa scelta?

Napoli è un teatro pieno di opportunità. Nel film questa distanza era necessaria per dare il senso di intimidazione di questa storia. Il professore pensa di essere un libero cittadino in un quartiere dove lui si è creato un’isola, che è la sua casa fatta di libri e musica. In realtà alla fine della storia scopre di essere un ospite, anche vigilato. La violenza la si può raccontare in vari modi: attraverso le azioni dei criminali, e noi siamo pieni di questo genere di storie, oppure attraverso questa intimidazione più sottile che sta dietro. A me interessava far capire che c’è un assedio che si insinua in modo peculiare nella vita delle persone e in qualche modo da esse viene interiorizzato. Raccontare una Napoli tutta vista un po’ di sghembo, dall’interno, mi serviva per far percepire questo rapporto con alcuni soggetti che via via diventa sempre più minaccioso. 

Nel film vengono trattati due temi importanti sia al livello giuridico che umano, uno riguarda i diritti dell’infanzia e l’altro l’omosessualità. Qual è il suo punto di vista in proposito?

Mi sono chiesto spesso se non sia il caso di considerare, al livello legislativo, la possibilità di togliere i bambini alle famiglie criminali. Non è un tema facile. Per accostare questo tema ho anche cercato un dialogo con le istituzioni. Il professore nel film si carica sulle spalle qualcosa che non potrebbe che prendere lui, capisce benissimo che la forma della legge impedisce qualunque intervento e lui interviene a suo modo, mettendo anche a rischio la sua vita. Sul discorso dell’omosessualità questo paese sembra condannato a non crescere sul piano di certe conquiste civili. La cosa che mi mortifica di più è che la rappresentanza politica appare in certi momenti sigillata all’indietro rispetto a come è la realtà della cultura del paese, in questo caso io non credo che il Parlamento sia lo specchio del paese.

Quando il piccolo protagonista entra nella casa del professore viene a contatto con un universo culturale, seppur circoscritto, a lui ignoto fino a quel momento. Quanto conta per lei questo tema?

La speranza è che la cultura ci sia per ogni singolo bambino, non solo quella data dalla scuola, ma anche l’ingresso a quella serie di esperienze complesse che riempiono la vita quali possono essere un libro, una storia, un film o un brano musicale. La cultura in questo momento è trascurata in Italia. Pur essendo un paese naturalmente immerso nella cultura, l’Italia è tra quelli che più abbandona la sua ricchezza. Io spero che prima o poi la politica e anche i cittadini capiscano che se non si riparte dalla cultura non si va da nessuna parte. Per questo mi sta molto a cuore anche il cinema. Il cinema sta vivendo una crisi epocale che non è solo legata alla pandemia, la pandemia ha accelerato un processo di disaffezione già in atto. Perdere la sala vuol dire perdere una modalità fondamentale di trasmissione e di partecipazione della cultura.