Sono passati solo un paio di mesi dalla presentazione del film alla Mostra del Cinema di Venezia 81, dove era in concorso per il Leone d’Oro, e sarebbe stato un peccato attendere oltre il nuovo film di Yeo Siew Hua (Pardo d’Oro a Locarno nel 2018 con Huàn tǔ – A Land Imagined), Stranger eyes – Sguardi nascosti. In arrivo al cinema dal 14 novembre, distribuito da Europictures, è un piacere parlare con il regista del suo film, un intrigante thriller psicologico interpretato da attori di spicco dell’industria taiwanese come Wu Chien-Ho, Lee Kang-Sheng (attore feticcio di Tsai Ming-Liang), Anicca Panna e Vera Chen.
Una co-produzione internazionale che vede coinvolto anche l’italiano Stefano Centini e che si concentra sulla storia di una giovane coppia di Singapore che, dopo la scomparsa della figlia di un anno, inizia a ricevere strani DVD contenenti video della loro quotidianità, mentre fanno la spesa o in situazioni più intime. Ma scoprire il voyeur che li perseguita non è facile, nemmeno per la polizia, che inizia a sorvegliarli, e i due iniziano a mostrare segni di crisi quando i filmati si fanno sempre più privati…
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10 anni a preparare questo film, perché tanto tempo?
Quando abbiamo iniziato il progetto non abbiamo avuto i finanziamenti necessari, poi dopo il successo di Huàn tǔ – A Land Imagined ci abbiamo riprovato e ce l’abbiamo fatta. Ma in questi 10 anni sono cambiate tante cose. Ho dovuto riscrivere il film per adeguarlo a chi sono io oggi e perché sono cambiati i discorsi sulla sorveglianza. Prima della pandemia si parlava di invasione della privacy, dopo il problema è diventato come convivere col fatto di essere sempre osservati. Io stesso vivo in un appartamento, come nel film, apro la finestra e vedo i miei vicini, e i miei vicini mi guardano. È un rituale quotidiano che è diventato la premessa della storia. Considerate che Singapore è una delle città con più strumenti di sorveglianza per persona, non si può camminare per 15 minuti senza trovare almeno tre telecamere che ti fissano.
Cosa è cambiato da allora?
Molto. Soprattutto sul significato della sorveglianza. C’è una sorta di accettazione. Se chiedi alle persone, forse non si sentono a proprio agio con l’essere tanto sorvegliati, ma pensano che dia loro sicurezza. Se mio figlio si perde, prego che la polizia riesca a vedere dov’è grazie alle telecamere. È una negoziazione, con questo nuovo mondo in cui viviamo.
L’esperienza da documentarista le è servita per questa osservazione?
Sicuramente. In un documentario l’osservazione è tutto, e il film parla di guardare e di come più si guarda, più cambia il modo. Ma soprattutto di prospettive e punti di vista. Va via che si scoprono le diverse prospettive, si comprendono i punti di vista dei personaggi e della storia rispetto a ciò che ci si aspettava all’inizio, e che magari cambia nel corso del tempo…
Sente la pressione di questa sorveglianza?
Sicuramente. Ma è qualcosa con cui imparare a convivere. In questo momento storico, poi, tutti vogliamo essere seguiti sui social media. Stiamo diventando un’immagine per gli altri, ma fino al punto è più reale di chi sono io veramente? Non guardiamo più le persone, scorriamo le foto. E c’è una grande differenza tra questo e dire “Lo conosco, lo vedo su Instagram”. Stiamo perdendo la capacità di capire gli altri esseri umani, la loro storia, i loro sogni. Stiamo diventando sempre più solo dei numeri.
Guarda ciò che la circonda da regista o riesce ad avere uno sguardo diverso?
Ci provo. I miei film si sviluppano lentamente, invito il pubblico a seguire i personaggi, a scoprirli gradualmente, ma ci vuole tempo, e pazienza. A volte mi preoccupo che il pubblico stia perdendo la pazienza di guardare davvero. Credo che il mio lavoro di regista sia anche di invitare il pubblico a stare seduto con il film e con i personaggi, a essere paziente, e sincero nel modo in cui guarda.