Una madre, una figlia: storie di emancipazione all’Isola del Cinema

Proiettato al Cinelab l’ultimo lavoro dell’acclamato regista Mahamet-Saleh Haroun

0

Diverse volte abbiamo accennato all’attenzione che il Cinelab rivolge alle opere “al femminile”. L’occhio attento di Joana De Freitas Ginori è spesso posato sulla ricerca di registe e storie che sappiano raccontare la complessità della vita per alcune donne nel mondo. Lo abbiamo visto con Woodgirls di Azadeh Bizargiti, con le serate dedicate all’European Women Filmakers e con le Wild Nights with Emily Dickinson (Madeleine Olnek).

La scorsa sera, tuttavia, si è aperta una prospettiva nuova, laddove a raccontare una storia al femminile è stato un uomo: Mahamet-Saleh Haroun. Dopo aver girato Un homme qui crie, vincitore del Premio della giuria al 63° Festival di Cannes, il regista ciadiano è tornato a esplorare i rapporti famigliari con Una madre, una figlia, il cui titolo internazionale è Lingui, les liens sacrés. L’esplorazione dei “legami sacri” è in effetti un leitmotiv ricorrente nella filmografia dell’autore, che stavolta narra la storia di Amina (Achouackh Abakar Souleymane) e di sua figlia Maria (Rihane Khalil Alio).

Entrambe vivono nei sobborghi di N’Djamena, in Ciad, e Amina si guadagna da vivere intrecciando cestini. È un lavoro sfiancante ma che porta avanti con dedizione poiché si tratta dell’unico mezzo di sostentamento per la sua famiglia, composta da lei e dalla quindicenne Maria. Amina sembra vivere solo per lei, e quando scopre che questa è incinta rivive in parte il trauma della sua gravidanza. “Non voglio vivere come te, nessuno ha rispetto di te” le dice Mamita (Maria) ricordando alla donna la pesantezza della sua condizione di ragazza madre abbandonata dal compagno. Dopo un primo momento di reticenza, Amina si convince ad aiutare la figlia intenzionata ad abortire, sfidando i veti imposti da credo e società.

Attraverso una regia pulita e lineare, quasi scarna, Mahamet-Saleh Haroun racconta un percorso di emancipazione e collaborazione tra diverse generazioni di donne, inscenando un film femminista in un contesto in cui l’indipendenza non può ancora godere del privilegio di essere espressa a gran voce.

«Una donna come Amina è esclusa e marginalizzata perché ha commesso quello che la società interpreta come un peccato» ha dichiarato il regista in merito al film «Ma in questa solitudine finisce per sviluppare una forma d’indipendenza: prendendosi cura di se stessa diventa un individuo al di fuori del gruppo e si costruisce una forma di libertà a cui non può rinunciare facilmente. È il percorso di emancipazione di una donna che preferisce vivere libera anziché sottomessa al potere religioso, familiare o politico». 

Un film prezioso e che fa riflettere, soprattutto se incasellato in un momento storico come questo, in cui il diritto di scegliere per se stesse e il proprio corpo è ancora messo in questione.