«Non è una rappresentazione: è ciò che è successo, fa parte della Storia, e succede ancora oggi», dice Gianni Loy, per quarant’anni docente di diritto del lavoro all’Università di Cagliari, e oggi volto e voce narrante del documentario di Peter Marcias Uomini in marcia, prodotto da Agnese Ricchi e Mario Mazzarotto per Ganesh e Ultima Onda, in collaborazione con Rai Cinema, Aamod, Cineteca Sarda Società Umanitaria e Morgana Studio, con il sostegno della Fondazione Sardegna Film Commission – Bando Filming Cagliari. E che, in attesa di essere distribuito in 100 copie da Notorious Pictures il 1° giugno (e di andare in onda in prima serata per la Rai in autunno), ha visto il 2 maggio la sua anteprima sarda (dopo quella mondiale e nazionale lo scorso ottobre alla Festa del Cinema di Roma).
E l’ha avuta al Cine-Teatro Centrale di Carbonia, snodo chiave del cammino rievocato dal cineasta, prendendo le mosse dalla Marcia per lo Sviluppo dei minatori del Sulcis Iglesiente nel 1992, per estendersi a un secolo e più di mobilitazioni operaie in Sardegna, in Italia e nel mondo. Il respiro internazionale lo suggellano le interviste a due grandi cantori cinematografici della working class, l’inglese Ken Loach e il francese Laurent Cantet, scomparso lo scorso 25 aprile e a cui è stato dedicato l’evento: «Un grande regista, ma anche un grande intellettuale, ci ha formato e ci ha lasciato dei grandi film», ha detto Marcias ad una sala affollata che celebrava non solo il debutto del doc ma l’incontro tra cinema e decenni di battaglie per un lavoro dignitoso.
Battaglie che sembrano permeare passato e presente dell’intera regione, nel cui capoluogo ci si può imbattere in una via dove sono affissi alcuni dei brani più emblematici (e, purtroppo, disattesi) della nostra Costituzione: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto» (art. 4). «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3).
Così è guidato e accolto chi si approssima alla Locanda dei Buoni e dei Cattivi, in una Cagliari segnata tanto dalla processione per il patrono sardo Sant’Efisio quanto dalla Festa dei Lavoratori, e dove ha inizio questo nostro viaggio tra cinema e territorio. Che ci porta ben presto in un luogo dove la custodia, valorizzazione e divulgazione del patrimonio audiovisivo s’intreccia con la memoria di chi quei principi costituzionali li ha affermati con le lotte: è infatti nell’area in cui sorgeva la Grande miniera di Serbariu a Carbonia, e più precisamente nell’edificio della vecchia direzione amministrativa, che trova sede oggi il Centro Servizi Culturali della Società Umanitaria – Fabbrica del Cinema della città.
Tre sale laboratorio, un’altra per proiezioni da 130 posti (dove era collocato l’ufficio paghe della miniera), una cineteca e corridoi tappezzati di locandine, da Banditi a Orgosolo a Lo chiamavano Trinità e Porcile (le ha messe a disposizione il regista Sergio Naitza) concorrono a formare uno spazio polifunzionale dove, tra le altre cose, si raccolgono i filmati non professionali realizzati in Sardegna fra gli anni ’20 e gli anni ’70. Come quelli che hanno ispirato e informato Uomini in marcia: lo rammenta lo stesso Peter Marcias dal palco del Cine-Teatro al fianco di Paolo Serra, Direttore Regionale dei CSC della Cineteca Sarda.
Alla serata troviamo di coloro che hanno contribuito alla realizzazione del film, come l’aiuto regista Antonio Gianfagna, il direttore della fotografia Simone Ruggiu, l’autore delle musiche Stefano Guzzetti e il montatore Fabrizio Federico. Fra gli intervenuti, l’Assessore comunale alla Pubblica Istruzione Antonietta Melas (che ha ribadito come «la lotta per il lavoro ha contraddistinto negli anni la nostra comunità»), l’Assessore regionale alla della Pubblica Istruzione, beni culturali, informazione, spettacolo e sport Ilaria Portas, e ancora Mario Zara, Presidente Associazione Amici della Miniera (che ha collaborato ad organizzare l’appuntamento assieme a Coop Lilith – Sezione di Storia Locale) e Don Antonio Mura, direttore della Pastorale Sociale del Lavoro della diocesi di Iglesias.
Ma soprattutto, c’erano e si sono fatti sentire i protagonisti di quella storia, come Peppino La Rosa (anche tra gli intervistati del doc), che la mobilitazione del Sulcis l’ha raccontata a sua volta (assieme ai co-autori Sandro Mantega, Tore Cherchi e Antonangelo Casula) nel libro La Nostra Marcia. 19 ottobre – 15 dicembre 1992 (Giampaolo Cirronis Editore), atteso al Salone del Libro di Torino il 9 maggio.
E fu davvero una manifestazione «eroica» quella Marcia per lo Sviluppo, secondo un altro volto e voce del documentario, Salvatore Cherchi, ex sindaco di Carbonia: «Una felice sintesi tra politica, sindacato, lavoratori, disoccupati». Con un insegnamento per l’oggi, aggiunge denunciando alcune ferite aperte sul territorio, come l’attuale dismissione dello stabilimento Enel “Grazia Deledda” in Sulcis: «Non è una società democratica quella in cui un ente, nel quale lo Stato è azionista di riferimento, chiude, se ne va, e lascia le centrali che cadono a pezzi».
Proprio come nel film di Marcias, i diversi momenti storici si richiamano a vicenda, perché ci parlano della stessa comunità, orgogliosa di non essersi arresa nemmeno nei momenti più bui. Come quel 2 maggio di 82 anni fa, quando a Seconda guerra mondiale in corso e dittatura fascista non ancora caduta, Carbonia, in risposta alle drammatiche conseguenze della privatizzazione dei pozzi minerari, vide il primo sciopero industriale (organizzato da cellule clandestine del Partito Comunista Italiano) nell’era nefasta del regime mussoliniano.
Ma sono anche 120 anni dall’eccidio di Buggerru: che, ci spiega Loy (anche scrittore, e autore di un libro sulla vicenda), «simbolicamente è l’inizio di tutto». Nel 1904, in quella che i francesi, scopritori della miniera, volevano rendere una “petit Paris”, da valle quasi disabitata a paese moderno di diecimila abitanti, «un giorno i minatori scioperarono all’improvviso: erano esasperati, costretti a lavorare sotto il sole, gli avevano tagliato anche un’ora di riposo durante l’estate. Il direttore della miniera chiamò l’esercito, i lavoratori si ribellarono, spararono e morirono tre persone».
L’importanza di quel tragico fatto è ancora maggiore se pensiamo che in risposta a ciò «la Camera del Lavoro di Milano proclamò il primo sciopero generale in tutta Italia. C’è stato il rischio che questa memoria andasse persa, solo dopo sessanta, settant’anni dopo l’eccidio si è cominciato a ricordarlo regolarmente». Senza tutto questo «il film non si sarebbe fatto». Perché al centro ci sono «i lavoratori, le donne, i ragazzi che per decenni hanno sostenuto un’economia di cui oggi resta poco. Una sofferenza collettiva che ci ha forgiato anche come popolo, come sardi».
E, prosegue Loy, «oggi ci sono fenomeni simili, pur con modalità diversa. La repressione non è forse più quella di Scelba [tra le figure mostrateci dal film nei materiali d’archivio, NdA], ma ha assunto altre forme, più sottili. Pensiamo anche al disprezzo di alcuni verso il reddito di cittadinanza». Oppure ai «rider che devono girare in bicicletta in qualunque condizione meteorologica senza alcuna tutela: sono paragonabili a quei proletari che si guadagnavano giorno per giorno il fabbisogno per sopravvivere». Non per nulla, ci si batte tuttora in Italia per un salario minimo: «Molta gente non si rende conto di che cosa significa prendere 9 euro lordi l’ora, stiamo parlando dell’indispensabile, e c’è ancora chi sostiene sia troppo».
Tutti nodi cui rimanda quello che Marcias a Carbonia ha tenuto a chiamare «documentario, perché non mi piace la parola “docu-film”, fa pensare a degli ingredienti di finzione. Qui non c’è nessuna finzione: è tutta realtà». E in questa realtà si può leggere ancora, malgrado tutto, una prospettiva di riscatto collettivo: perché, chiosa Loy, «la vera speranza è quella che riusciamo a coltivare quando sembra che non ne abbiamo più».