IL FATTO – Armand, un bambino di sei anni con problemi di aggressività, è accusato di aver molestato sessualmente un coetaneo, Jon, nel bagno della scuola. Viene perciò convocata l’attrice Elisabeth, madre di Armand (il cui padre, Thomas, è morto in un incidente stradale), per un incontro informale con i genitori della presunta vittima, al fine di valutare l’accaduto e concordare dei provvedimenti, con la mediazione di un’insegnante e dei dirigenti dell’istituto. Ma Elisabeth non crede alla colpevolezza del figlio e, complici i legami e contrasti pregressi fra i presenti, la tensione sale rapidamente.
L’OPINIONE – A dispetto del titolo, questo primo lungometraggio del norvegese Halfdan Ullmann Tøndel (vincitore della Caméra d’or a Cannes 2024, poi del Premio FIPRESCI agli EFA e in sala dal 1° gennaio per Movies Inspired) ci parla, più che del piccolo Armand, soprattutto degli adulti. La cui scarnificazione reciproca, dietro il tentativo a tratti maldestro e ipocrita di chiarirsi civilmente e gestire con maturità i conflitti sorti tra i minori, può ricordare, soprattutto nella prima parte, Carnage di Roman Polanski.
Ma, anziché una commedia satirica sui rapporti di classe, Armand è un dramma, ai confini col thriller psicologico, che anatomizza la famiglia in senso esteso (con l’eccezione della maestra Sunna, tutti i protagonisti si rivelano legati da parentele, frequentazioni di vecchia data o attrazioni semiclandestine). E il luogo-gabbia del gioco al massacro non è un appartamento piccolo-borghese negli USA, ma una scuola scandinava alle soglie dell’estate, deserta di bambini (quasi sempre fuori campo nel film), i cui genitori e docenti vagano confusi tra corridoi, aule e scale a chiocciola in cui risuona la campanella di un allarme guasto.
Simbolismi neanche troppo velati di una messa in scena che, mentre emergono le ombre dei personaggi e di una verità sempre più incerta e inattingibile, sconfina via via nell’allucinazione psicanalitica e nella stilizzazione allegorica, fino a farsi apertamente rappresentazione (meta-)teatrale al confine (non sempre ben distinguibile) fra realtà e trasfigurazione della mente. Non per nulla il regista è nipote di Ingmar Bergman e Liv Ullmann, e in Armand si agita più di qualcosa del loro cinema, fra le inquietudini morali di coscienze in crisi e le grida (anche mute) di donne e uomini che non hanno ancora fatto i conti col loro stesso, disfunzionale infantilismo.
E al di sopra delle tante forme di debolezza in cui scava il film, domina la forza dell’interpretazione (candidata agli EFA) di Renate Reinsve (già vincitrice a Cannes per La persona peggiore del mondo, e vista quest’anno anche in A Different Man e Another End). La sua Elisabeth accentra, assorbe e rimanda indietro le reticenze, le inadeguatezze, le adesioni e le ostilità degli altri che la circondano, trasformandoli nel pubblico della sua pièce-danza sadomasochista, straniante e disturbante (come la lunga risata compulsiva con cui mette a nudo interlocutori e spettatori). Facendosi portatrice, sino alla fine, di un’ambiguità che resta nella pelle.
SE VI È PIACIUTO GUARDATE ANCHE… Il già citato Carnage di Roman Polanski.