“Autopsy”: la recensione dell’horror con Emile Hirsch

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The Autopsy of Jane Doe GB/Usa, 2016 Regia André Øvredal Interpreti Emile Hirsch, Brian Cox, Olwen Catherine Kelly Distribuzione M2 Durata 1h e 39’

Al cinema dall’8 marzo 2017

IL FATTO – Gran brutto caso, quello che si dispone davanti agli occhi del medico legale Tommy Tilden aiutato dal figlio Austin. Nel loro attrezzato obitorio in quel di una cittadina della Virginia (anche se le location nominano solo Londra), gli viene consegnato un cadavere non identificato, apparentemente in ottime condizioni, trovato sepolto in un seminterrato in una villa di campagna teatro di una carneficina. Man mano che lavorano sul corpo, i due specialisti si troveranno di fronte a fenomeni sempre più inspiegabili e macabri: “pulitissima e integra fuori, incredibilmente devastata dentro, è più che strano è impossibile!”. Intanto intorno a loro cominciano a verificarsi fatti sempre più inquietanti e terrorizzanti.

L’OPINIONE – “Ogni corpo ha un segreto, solo che alcuni lo nascondono meglio di altri” è la filosofia razionalista applicata che il padre prova trasmettere al figlio. Solo che qui non siamo di fronte a un giallo alla Patricia Cromwell (presente Kay Scarpetta?) o Kathy Reichs (presente Temperance Brennan?); questo è un horror con tutti i crismi. Davvero, pensavamo impossibile che da un campionario di clichées del genere (le luci al neon, i corridoi scuri con un unico ascensore cigolante, bisturi, asce e armi da taglio varie, la radiolina che crepita, la fidanzatina incauta, non manca neppure il gatto) fosse possibile estrarre ancora paura, emozioni, insomma sangue vivo, eppure qui è successo.

Lo scandinavo André Ovredal di cui han detto benissimo del suo precedente, il bizzarro e premiato Trollhunter (2010), impasta il materiale trito con più di una originalità, a partire dal taglio della storia che entra quasi obliquamente nel cinema fantaterrificante e conoscendo benissimo i tempi della suspence (quelle inquadrature dosate al secondo sull’angelico viso con la bocca spalancata e gli occhi nebbiosi, privi di pupilla, che sembra prendere vita da un momento all’altro!), sortendo quasi un film alla John Carpenter (certo, senza l’incalzante ritmo solito dei film di questo gigante della regia, però gli si avvicina). A supporto, non possiamo scordarci di menzionare, tra i premi vinti nelle manifestazioni di settore, il Gran Premio della Giuria al glorioso festival di Sitges più il secondo posto a Toronto. Curiosità: Jane Doe – vedi anche il titolo originale – è un termine usato solitamente nella giurisprudenza americana per indicare una donna priva di identità; ancor più conosciuto è l’equivalente maschile, John Doe (Wikipedia dice che fu usato per la prima volta al tempo di Edoardo III di Inghilterra, 1312-1377) che è poi non per caso il nome del personaggio (ovvero il tipico uomo qualunque) interpretato da Gary Cooper nel delizioso Arriva John Doe! (1941) di Frank Capra.

Massimo Lastrucci

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