CAFÉ SOCIETY: LA RECENSIONE

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Anni ’30. Tra Bronx, Hollywood e ritorno, la vita di Bobby Dorfman svolterà, nel bene e nel male. Senza arte né parte, tipico rampollo di famiglia ebrea (ovvero litigiosa e inseparabile, con madri apprensive, cognati comunisti e zii gangster) in California lo zio produttore lo introduce nel mondo del cinema, dove puntualmente si innamora della segretaria Vonnie giusto per rimanerne scottato. Tornato a casa, gestirà un locale notturno che diventa uno dei luoghi “in” della metropoli. Ma il suo destino si incrocerà ancora con quello della ragazza.

La contrapposizione tra la nevrotica New York e la superficiale California, le amate/odiate radici ebraiche, il jazz (anzi: lo swing), l’ironia e l’amaro («La vita è una commedia scritta da un sadico», parafrasando Shakespeare, scusate se è poco); non c’è da dubitare siamo in piena Allenland, magari con materia un po’ troppo rimasticata e ripetitiva (curiosamente al nostro beneamato ormai riescono meglio i noir che non le commedie). Ma ci sono caratteristiche artistiche che fanno ormai parte del suo sublime mestiere e che non possono scomparire: vedi così il gran senso del ritmo, la cura per il dettaglio significante (con la luce orchestrata da Vittorio Storaro che illumina e riscalda), il colpo a sorpresa di un talento narrativo che anche quando funziona a sprazzi è capace di gag gustosissime, per finire sottolineando la consueta attenzione ai personaggi e alla recitazione (e infatti anche le star più rinomate sono sempre contente di lavorare con un cineasta che trova e cuce per loro ruoli e caratteri inconsueti). E se Eisenberg è ancora un tipo – diciamo così – artisticamente “liquido”, generoso ma indefinito, al contrario Kristen Stewart appare sempre più sicura ed efficace alle prese con figure morali “da terra di mezzo”. Sorprendente poi Steve Carell, ormai lontano anni luce dalle parti un po’ demenziali che lo hanno lanciato. C’è chi ha parlato di Francis Scott Fitzgerald come riferimento letterario (Gli ultimi fuochi, Il grande Gatsby) e probabilmente è vero; Woody “pesca” sempre dalla letteratura alta per i suoi divertissement che, anche quando risultano un po’ fritti e rifritti (ed è questo il caso) possiedono sempre quel certo decoro e quel certo nonsoché tutti suoi.