C’era una volta… a Hollywood, la recensione del nuovo film di Quentin Tarantino

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Once Upon a Time… in Hollywood Usa/2019 Regia Quentin Tarantino Interpreti Leonardo DiCaprio, Brad Pitt, Margot Robbie, Al Pacino, Timothy Olyphant, Kurt Russell Distribuzione Sony Pictures Italia/Warner Bros. Pictures Italia Durata 2h e 15′

Al cinema dal 18 settembre 2019

LA STORIA – Laggiù nella Hollywood del 1969, terra di sogni e di chimere, tra “fottuti hippies” e parvenu, l’ex star televisiva in declino Rick Dalton cerca sempre più affannosamente di riciclarsi e con lui, l’amico (“poco più che un fratello, poco meno che una moglie”), tuttofare, stuntman e sua controfigura, Cliff Booth. L’agente Marvin Schwarz lo vorrebbe in Italia a recitare negli spaghetti western, lui, sempre più insicuro e macerato dalle ansie, accetta di fare il cattivo in un western diretto da Sam Wanamaker (attore e regista di non disprezzabili film come Catlow, 1971, n.d.r.). Intanto Booth mette a posto la casa dell’amico, sistema un fanatico Bruce Lee e dando un passaggio a una deliziosa freakkettina arriva nella fattoria dove si è insediata una comunità la cui guida è un certo Charlie Manson. Tra l’altro la villa di Dalton è praticamente accanto a quella dell’emergente regista polacco Roman Polanski e la moglie Sharon Tate

L’OPINIONE – C’era una volta… a Hollywood è un film – che doveva essere un romanzo – che si è costruito prima sulla figura di Cliff Booth, ex militare che dietro la rocciosità sorniona del tipo che si accontenta e aspetta si porta dietro la fama di probabile uxoricida, insomma il classico eroe grigio-nero alla Tarantino.

Il suo “datore di lavoro”, Dalton è un personaggio costruito in seconda battuta, uno che non ci sta al futuro da perdente che gli fa l’occhiolino, infantile e aggressivo la sua parte, con più doti artistiche di quelle che pensa di avere. In realtà assolve la funzione di grimaldello narrativo nel mondo della fabbrica del cinema.

Così per due ore e rotti, il Tarantino versione (molto) cazzeggiatrice e semi-autorale (ogni tanto sembra quasi vagheggiare verso un astrattismo senza trama), passeggia e divaga tra sentierini su misura per capitoli con personaggi macchietta (alcuni deliziosi), camei per vecchie volpi dello schermo, citazioni colte e a volte superflue di vip che fanno tanto costume e storia (però Bruce Lee qui è veramente vituperato!), monologhi da cinema d’essai (lo show di DiCaprio che prova la parte nella roulotte a piccoli scatti di montaggio); l’action la riserva negli spezzoni dei telefilm interpretati da Dalton, almeno sino all’ultima parte, quando tre belve sciroccate della “banda” Manson stanno cercando nella notte dei porci borghesi da sgozzare, a mo’ di azione esemplare.

Luminoso come la California, con una ricostruzione scenografica da Oscar (a cura di Barbara Ling), così come (ma questa è una costante di Tarantino) l’assemblaggio dei brani musicali, di finissimo gusto filologico (gran recupero di Paul Revere & The Raiders!), ridondante di deliziose trovate e ammiccamenti (per noi particolari quelli al nostro cinema B di quegli anni, perché Dalton lavorerà in una pellicola di Sergio Corbucci, “il secondo più grande regista di spaghetti western”, con ritorno da Roma con soldi e una moglie italiana), C’era una volta… a Hollywood è però anche slabbrato e sbanda tremendamente sul ritmo, generando noia e con troppo pochi risvegli adrenalinici.

Come in Bastardi senza gloria, il cineasta si diverte a riscrivere la Storia nell’unico luogo dove lo si può fare, nell’Arte. Fortuna per lui che Di Caprio e Pitt sono attori cui la retorica scivola via sui loro corpi da star che sanno recitare (e bene) e tutto si accetta nel nome del Divismo with Glamour. Citazione di merito poi per Margaret Qualley, squinternata hippie tutta vitalità e simpatia. Ah, ultima cosa: per chi “quei tempi là” non ha vissuto e comunque poco gli importa, gli hippie non erano dei “fottuti” criminali o (solo) parassiti o (comunque) gentaglia, tutt’altro. Fatte le dovute eccezioni, si capisce.