ENCLAVE

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Nenad ha dieci anni. Vive in un enclave serba (ovvero cristiana) nel mezzo del Kosovo albanese (e musulmano), in una pace molto precaria a quattro anni dalla fine delle ostilità (siamo nel 2004). Ha un nonno di 86 anni ormai moribondo e un padre contadino, brusco e cupo, che non disdegna l’alcool. Quando si reca in paese viene accompagnato da un sacerdote su un autoblindo guidato da militari (italiani). “Non ho alcun migliore amico perché nel mio paese non ci sono bambini” scrive sul tema, unico alunno della scuola.  Comunque ha un nemico, Bashkin, un coetaneo albanese cui i serbi hanno ucciso i genitori e che vive ossessionato dal desiderio di vendicarsi, in qualche modo.

La guerra non finisce col cessate il fuoco, continua anni dopo anni, ad avvelenare il presente e le coscienze. E basta un niente, una serie di equivoci e sospetti, per generare drammi e violenze. Di produzione serba, Enklava grida forte e chiaro il suo disperato pacifismo e gli si può perdonare (volentieri) una certa predisposizione al sentimentalismo e al messaggio positivo. Goran Radovanovic, 58enne cineasta di Belgrado che ci piace ricordare scoperto anche dal Torino Film Festival (allora si chiamava Festival Internazionale Cinema Giovani) che lo premiò nel 1995 per il corto Columba Urtica, ha comunque l’occhio asciutto e vigile del documentarista e non fa sconti alle anime stanche, incattivite e sperdute, in un paesaggio rurale ricco solo di rovine e rottami. Lì una nuova piccola campana può essere il simbolo di una possibile ripartenza e una gamba ferita per un incidente può scatenare una catena di eventi incontrollati che la sceneggiatura (dello stesso Radovanovic) orchestra anche con una certa furbizia. Al festival di Mosca del 2015 ha ottenuto il premio del pubblico e la Serbia lo ha invitato a rappresentare il suo paese alle nomination degli Oscar per il Miglior Film Straniero.