Final Portrait – L’arte di essere amici: la recensione del film di Stanley Tucci

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Armie Hammer e Geoffrey Rush in Final Portrait

Final Portrait, Gran Bretagna, 2017 Regia Stanley Tucci Interpreti Geoffrey Rush, Armie Hammer, Clémence Poésy, Tony Shalhoub, James Faulkner, Sylvie Testud, Kerry Shale Distribuzione BIM Durata 1h e 30′

Al cinema dall’8 febbraio 2018

LA STORIA – Anno 1964. Di passaggio a Parigi, il giornalista e appassionato d’arte americano James Lord incontra il suo vecchio amico, il celeberrimo Alberto Giacometti. Lì accetta di posare per lui, pensando che sa una faccenda di pochi giorni. Invece, come gli preannunciano la moglie dell’artista (che ha con il marito un ben strano e complesso rapporto) e il fratello Diego (scultore anch’egli di fama) non sarà per nulla facile seguire l’estro e le manie di un genio dell’Arte perennemente insoddisfatto di quel che fa e dal temperamento mutevole come un giorno ventoso di marzo. Eppure l’amicizia non si incrinerà. Anzi verrà paradossalmente rafforzata.

L’OPINIONE – Un grande attore (è accreditato in più di 120 produzioni) e regista di poche ma apprezzatissime opere come Stanley Tucci che peraltro qui per la prima volta non si dirige (l’ottimo Big Night il suo esito migliore); un protagonista di notevoli qualità espressive soprattutto se riescono a imbrigliarne la tendenza alla gigioneria ovvero Geoffrey Rush; una storia che dovrebbe rivelare genio e conseguenti sregolatezze di un autentico gigante dell’Arte del ‘900, lo svizzero Alberto Giacometti. Eppure qualcosa stride e lascia alla fine un gusto di insipido. Cosa c’è dunque che non va?

Tratto dal libro di memorie dello stesso Lord, qui interpretato da un elegante e sfuggente Armie Hammer (ora sugli schermi anche con Chiamami col tuo nome), Final Portrait vorrebbe chiaramente rivelare il genio al lavoro, ma alla fin fine di quell’operare nervoso nella materia (metallo e gesso) come sulla carta (e tela), di quello stilizzare e scavare la figura umana sino a esasperarla in un’atroce e disperata caricatura, resta solo una raccolta di bizzarrie e di azioni continuamente rinviate da parte di un carattere scorbutico ma simpatico, privo del senso del denaro, del tempo e dell’urbanità, tutto concentrato su se stesso e su un lavoro manuale che lo sfibra senza mai convincerlo del tutto. Insomma quasi una caricatura (questa sì) di un pittore come viene immaginato dalle masse e la loro cultura.

Così se l’aria che si respira è simpatica, persino tanto nouvelle vague (vedi l’episodio con i due papponi, da commedia “Rive Gauche”, anche se gran parte di Final Portrait è girato a Londra), il centro drammatico della trama si sperde e si scioglie come un colore nell’acqua. Presentato in vari festival, il film ha ottenuto una nomination per il lavoro sulla scenografia, effettivamente notevole, di James Merifield ai British Indipendent Film Award.