Funny Face – Recensione – TFF38

Al Torino Film Festival, nella sezione Le stanze di Rol, il nuovo film di Tim Sutton "Funny Face", visto anche a Berlino 2020.

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Mentre il mondo (del cinema, ma non solo) sta ancora elaborando quell’oggetto anomalo e incandescente che è stato Joker, al Torino Film Festival (sezione Le stanze di Rol, in streaming fino a sabato ore 14) arriva, dopo essere transitato per l’ultima Berlinale, Funny Face, di Tim Sutton. Ci troviamo a Coney Island, in una Brooklyn raramente così degradata e indifferente: Saul (Cosmo Jarvis, visto a questo TFF anche in The Evening Hour) è un giovane psichicamente fragile in procinto di essere sfrattato perché un opulento speculatore (Jonny Lee Miller) possa fare della sua casa un parcheggio. Incontra una ragazza scappata di casa, Zama (Dela Meskienyar, al suo primo lungometraggio). Due solitudini, due figli anomali della stessa città ostile, e soprattutto due maschere: per lei, il velo integrale islamico, per lui la faccia ghignante che dà il titolo al film.

Lo stesso regista-sceneggiatore alimenta l’istintivo accostamento col Joker di Phoenix, presentandoci il suo film come la «origin story, surreale e fai-da-te, di un supereroe», dove il confine tra quest’ultimo e il villain è, neanche a dirlo, sempre più labile: e dove, pure stavolta, all’inferno di una metropoli figlia (degenere) del capitalismo made in USA si contrappone un sorriso disturbante, quello della maschera indossata da Saul. Come l’Arthur Fleck di Phoenix, Saul è un marginale abbandonato da una società rapace e indifferente, il cui disagio psichico e sociale può esplodere da un momento all’altro contro i carnefici. E, come nel film di Todd Phillips, l’ambientazione mescola la contemporaneità (spuntano non casuali effigi trumpiane) a un passato prossimo (cui rimanda tra l’altro il frequente uso delle cabine telefoniche) da cui forse l’America (e non solo) non si è mai davvero emancipata.

Non a caso, ci muoviamo cinematograficamente tra rimandi (evidenti e dichiarati) a Taxi Driver e all’immaginario delle coppie maledette e in fuga (anche e soprattutto da se stesse) da Bonnie & Clyde a Solo gli amanti sopravvivono passando per La rabbia giovane e Requiem for a Dream. Ma Funny Face, a ben vedere, non si riduce ad essere una mera e derivativa variazione sul tema. E Sutton, al suo quinto lungometraggio (tra i precedenti Memphis, premiato a Venezia 70, e Dark Night, sul massacro al cinema Aurora), si conferma degno esponente di quel nuovo cinema indie americano aspro, pessimista e contaminato, tra genere e nuove voragini sociali. Un cinema (ben rappresentato, ad esempio, anche dai fratelli Safdie) di antieroi perdenti e disperati, di drammi senza riscatto e di tragedie senza catarsi.

Più che figli di Joker, allora, Saul e Zama ne appaiono i riflessi, gli imitatori mancati e (dis)persi in un altrove persino più straniante (grazie anche al notevole supporto del tema musicale, essenziale e ossessivo, di Phil Mossman). Dove il neoliberismo dell’era Reagan (e oltre) si è compiutamente saldato al nichilismo degli anni Novanta, come sembra dimostrare la presenza di Miller (il “Sick Boy” di Trainspotting) nel ruolo dell’imprenditore-squalo rampante e frustrato, maschera tanto più grottesca del medesimo abisso. L’umanità sopravvive nella tenerezza precaria e fuori dagli schemi dei due ragazzi emarginati, «metafora», nelle intenzioni del regista, di vite che continuano malgrado tutto a scorrere «mentre il mondo intorno sta crollando». Ma senza che, tra le macerie, si intraveda una reale via d’uscita.

Voto: ***½