Fury, la guerra in un carro armato: perché vale la pena di rivederlo

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Id. Usa, 2014 Regia David Ayer Interpreti Brad Pitt, Shia LaBeouf, Logan Lerman, Jon Bernthal Distribuzione Lucky Red Durata 2h e 14’

 

LA STORIA — Anno 1945, l’esercito tedesco arranca sotto l’avanzata alleata. L’inesperto Norman Ellison viene aggregato all’equipaggio di un carrarmato (modello Sherman) al comando del sergente Don “Wardaddy” Collier. Lanciati sempre all’avanguardia, i nostri litigiosi e stressati eroi entreranno in Germania, tra città devastate e missioni sempre più pericolose, sino a scontrarsi con un intero battaglione nemico in ritirata.

L’OPINIONE — Non pensiamo alla Storia. In Fury, a parte il quadro generale e le annotazioni tecniche sulle diverse caratteristiche e duttilità dei carri armati americani e tedeschi, c’è soprattutto action e pathos. Un po’ come certi western o warmovies tumultuosi e scorrettissimi tardi Anni ‘60 (qualcuno ha scomodato Peckinpah? Beh, giusto per dare l’idea). I cinque yankee di Fury si differenziano per caratteri e cultura, il mistico convive con il brigante, l’idealista con il cinico, probabilmente il democratico con il repubblicano, fanno insomma “mucchio quasi selvaggio”. E dopo un insolitamente curioso e dal regista davvero ben giocato incontro con il gentil sesso, ovvero sentimenti basici, ruvidità e desiderio di normalità, l’avventura di Fury tocca l’apice con uno scontro all’ultima violenza; una fiumana nemica contro gli asserragliati nel tank, quasi come certe goduriose epiche spicciole di tanto cinema di Hollywood del tempo che fu, canagliesco e irresistibile (con gli assedi quasi senza via di scampo: indiani, messicani a Fort Alamo, barbari, vichinghi, arabi ecc., c’è solo l’imbarazzo del nemico, non dello schema).

David Ayer è uno sceneggiatore regista da action/thriller urbano; certamente punta al cazzotto allo stomaco, ma non è privo di finezze narrative, senza eccessi di volgarità o stucchevoli scemenze ideologiche. Del resto Brad Pitt, che qui è anche coproduttore esecutivo, non glielo avrebbe permesso: ed è lui, sporco e cupo, a guidare un team artistico (Shia LaBeouf, Logan Lerman, Michael Peña, il già notato in tv – The Walking Dead capitoli uno e due – Jon Bernthal) macho ma non machista.