HITMAN: AGENT 47

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Id. Usa, 2015 Regia Aleksander Bach Interpreti Rupert Friend, Zachary Quinto, Hannah Ware, Ciarán Hinds, Thomas Kretschmann Distribuzione Fox Durata 1h e 36’ 

In sala dal

29 ottobre

«Più forte, più rapido, più intelligente »: è l’Agente 47, un killer geneticamente modificato, una vera macchina per uccidere senza paura e senza remore. La sua agenzia lo incarica di trovare lo scomparso dottor Litvenko, tra l’altro il suo creatore, prima che lo faccia una megasocietà che vorrebbe sfruttarlo per creare un esercito di super-combattenti. Non è però il solo a cercarlo, c’è anche Katia, la figlia di lui, abbandonata da piccola e che pare anche lei dotata di qualche peculiare superqualità.

Seconda filiazione dalla omonima serie di videogame, Hitman: Agent 47 (occhio al numero!), sembra avere una particolare predisposizione a utilizzare star glorificate dal piccolo schermo. Se nel precedente era Timothy Oliphant (Deadwood e Justified), ora tocca al britannico Rupert Friend (quello di Homeland). Tra Salisburgo, Berlino e Singapore, questo incrocio tra 007, Robocop e Terminator (di questi ultimi possiede anche la notevolissima mancanza di sense of humour), semina morti nelle più spettacolari maniere possibili, alle prese tra l’altro con un avversario – uno che si fa chiamare John Smith (Zachary Quinto, anche lui frequentatore delle serie tv, vedi American Horror Story, ma è anche il giovane Spock nel nuovo Star Trek) – che ha pure lui le sue belle “migliorie” a renderlo praticamente imbattibile e indistruttIbile. Il debuttante regista di origine polacca Aleksander Bach viene dal mondo dei video musicali, oltre a essere stato segnalato come nome emergente anche a Cannes. Lo si nota da come rende l’action particolarmente frenetica e sincopata, spezzettando le scene con una miriade di dettagli a distanza ravvicinata e flashback. Di certo punta a riempire il vuoto pneumatico della storia con virtuosissimi di confezione. E ci mette pure la morale per chi non avesse capito: «Sei umano? » gli chiede la prudentissima – non per natura – Katia; «Sono quello che è necessario che io sia » risponde. Ma poi alla fine è lei a fornire la risposta giusta: «Le nostre azioni determinano quello che facciamo » (peraltro lo diceva anche la Chiesa Cattolica all’epoca della Riforma). Da notare anche Jurgen Prochnow, chissà perché esposto lì in un breve cameo.

Massimo Lastrucci