I MAGNIFICI SETTE

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Bartholomew Bogue, “il magnate ladrone”, vuole impadronirsi di tutta la vallata su cui sorge Rose Creek per poter sfruttare allo stremo la miniera d’oro soprastante. Per questo, con noncurante ferocia, non esita a vessare e uccidere («lasciate i corpi, voglio che possano guardarli»). Una contadina rimasta vedova pensa allora di assoldare qualcuno che li difenda. Quel qualcuno è Sam Chisolm, che si dichiara «delegato di giustizia» ma svolge un mestiere abbastanza simile a quello del cacciatore di taglie («denaro per sangue, è uno strano lavoro»). In effetti il pistolero nero quando accetta l’incarico lo fa, più che per senso della giustizia, per un sanguinoso conto in sospeso. E si mette in cerca di ribaldi in grado di accompagnarlo. Ne recupererà altri sei.

Lo so, questo Magnifici sette, il terzo della serie (dopo il capolavoro indimenticabile di Kurosawa e l’Hollywoodiana versione di Sturges) sembra un catalogo Postal Market di tutti i cliché del western post spaghetti (senza tralasciare Tarantino), per non tacere dei gunman spesso in posa fotogenica, delle comparse ben vestite che tutto sembrano tranne zappaterra, delle battute da filmone («Ciò che abbiamo perso nel fuoco, lo troveremo nella cenere» o perbacco!), addizionato in più da tutta la facile retorica del filmare benpensante (vedi l’attenzione a tutte le minoranze, asiatiche, native, afro, mexican e forse persino cripto gay, mentre il cattivone è uno sfruttatore che straparla di democrazia-capitalismo-Dio).

Ma, segnalata come da dovere tutta la commercialità dell’operazione (che pure non riesce a nascondere l’intrinseca radice rivoluzionaria della trama, basata sulla logica della “lotta di popolo, lotta che vince”), come si fa a non divertirsi così ritrasportati nell’immaginario delle sparatorie, dei duelli (anche verbali) macho-man, dei cavalli al galoppo, tra i set tutto roccia-fiume-saloon che rinverdiscono i fiammeggianti ricordi di un cinema magari ideologico e ingenuo ma comunque grandioso? E se gli attori si crogiolano secondo copione tra gli stereotipi – e sì, l’afro-americano specialista in action Antoine Fuqua non si è fatto mancare proprio nulla, come in lussuosa vacanza tutta pagata – con il malvagio Peter Sarsgaard (favorito dalla parte) una spanna sugli altri, la colonna sonora, firmata da Simon Franglen e James Horner, ci ricorda ancor di più che siamo in un mondo irreale fatto di citazioni; infatti le Morriconate impazzano così come ogni tanto fa capolino (esploderà nei titoli di coda) il leggendario motivo (ai tempi un hit) della versione 1960 composto dal divino Elmer Bernstein.