Il paradiso probabilmente, la commedia surreale di Elia Suleiman tra Occidente e Palestina

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Il paradiso probabilmente Francia/Qatar/Germania/Canada/Turchia/Palestina, 2019 Regia Elia Suleiman Interpreti Gael Garcia Bernal, Ali Suliman, Elia Suleiman, Grégoire Colin, Stephen McHattie, Kwasi Songui, Holden Wong, Robert Higden Distribuzione Academy Two Durata 1h e 37′

Al cinema dal 5 dicembre 2019

LA STORIA – Per quanto tu cerchi di allontanarti, se sei palestinese la tua patria ti accompagna ovunque vai, non puoi liberartene. ES (sta per Elia Suleiman stesso, che casualmente come sigla potrebbe anche voler dire, citando Freud: “la voce della natura nell’animo dell’uomo”) è un intellettuale più che laconico ma non solitario che decide di abbandonare la casa in cui vive per andare a vedere se si può star meglio, prima a Parigi, poi a New York, magari per cercare i soldi per fare un film. Infatti Gael Garcia Bernal (nel ruolo di se stesso) che lo conosce come cineasta lo presenta a una società di produzione: “vuole fare una commedia sulla pace tra Israele e Palestina” “Già fa ridere!”. Forse, più che tutto il mondo è paese, tutto il mondo è infelice e “il Paradiso può attendere”.

L’OPINIONE – Con un occhio a cavallo tra Occidente e Palestina, Elia Suleiman costruisce una commedia surreale il cui stile molto deve per esempio alla poetica di Jacques Tati. Se nei precedenti (e “più” fulminanti, se ce lo si concede: Intervento divino, 2002 e Il tempo che ci rimane, 2009) utilizzava se stesso come una maschera keatoniana a contatto con l’asprezza, l’ingiustizia e la tragicomicità della situazione della Palestina occupata, qui mani dietro la schiena, espressione attonita e imperscrutabile che solo a fine film, al ritorno, si aprirà in un lieve Leonardesco (stile Gioconda) sorriso, osserva il buffo mondo intorno a se, a cui lui è come estraneo.

L’inquadratura è geometrica, precisa. Alla camera fissa che simmetricamente iscrive la scena a volte seguono lunghe carrellate (ad esempio sui piedi che camminano mentre seguono una bellissima contadina palestinese); splendido è l’uso del sonoro, del rumore come “attore” significativo: Parigi è ripresa come se fosse deserta o quasi, silenziosissima, e un aereo che passa o un’ambulanza che gira suonano quasi come uno sfregio metafisico. ES la percorre con la stessa curiosità del flaneur che aveva in Palestina e come in Playtime o in nel caos del traffico di Tati, l’occhio del protagonista-osservatore registra l’assurdo, il comico e un certo misterioso ritmo interno delle cose.

Cinema di altissimo ceto stilistico, magari col rischio del manierato e dell’impalpabile, ma decisamente originale e unico in questo momento nel panorama. A Cannes ha ottenuto una menzione speciale della Giuria, io avrei premiato anche il volitivo passerino che insiste ad andare sulla tastiera di ES e che vi ritorna nonostante sia ogni volta allontanato con il braccio. Esilarante e tenero!