È una ventata d’aria fresca, Memory Box, nella nostra quotidianità mediaticamente avvelenata dall’orrore della guerra e dalle retoriche mortifere che produce. Il lungometraggio della libanese Joana Hadjithomas (regista e sceneggiatrice insieme al consueto partner e connazionale Khalil Joreige) della guerra ci parla. Mostrandocene la tragedia in cui, come si afferma nel film, «non esistono più riferimenti o convinzioni. I nostri leader, corrotti e patetici, pensano solo al potere. È diventato difficile definire il confine tra il bene e il male». Eppure, Memory Box riesce ad essere (anche) un elogio della vita e della capacità umana di rigenerarsi nel tempo, attraverso l’apertura all’altro e la condivisione delle esperienze. E, non da ultimo, attraverso le immagini.
Presentato nel 2021 alla Berlinale e poi al Torino Film Festival, il film è, non per nulla, un’altra tappa del percorso artistico (composto, tra le altre cose, anche da video-installazioni, sculture, fotografie) della coppia di cineasti, tesi ad indagare sullo statuto dello sguardo (anche) in relazione alle travagliate vicissitudini della realtà libanese. Stavolta, il racconto è liberamente ispirato alla corrispondenza di Hadjithomas risalente agli anni 1982-1987, critici per la sua terra d’origine, segnato da una guerra civile aggravata dalle invasioni siriana e israeliana.
Un passato che si ripresenta decenni dopo a Montréal, in casa dell’adolescente Alex (Paloma Vauthier) e della madre Maia (Rim Turkhi e, da giovane, Manal Issa), emigrata dal Libano quando era ragazza. L’arrivo di uno scatolone contenente vecchi quaderni, foto e registrazioni della donna risalenti al periodo del conflitto, fa scoprire ad Alex aspetti che non conosceva sul passato dell’altra. Il confronto tra più generazioni di madri e figlie (c’è anche la nonna Teta) fa emergere allora il trauma di una guerra (di ogni guerra) che travolge individui e popoli, case e affetti, ideali politici ed entusiasmi giovanili. Ma condividere quel trauma con «i nostri figli» (per citare la dedica finale del film) può essere l’occasione per elaborare, finalmente, quanto è accaduto e risollevarsi.
Un percorso che Memory Box traccia senza che la densità dei temi soffochi mai la ricchezza dello stile. I due registi infatti evitano i cliché e mettono in cortocircuito piani temporali e formati audiovisivi: tra le chat di oggi e le voci, canzoni e fotografie di ieri, che a loro volta diventano sequenze animate e filmate. Dove le figure di ieri escono dal quadro e vi rientrano per (ri)vivere oltre i confini di uno scatto, e un bacio o la corsa di due amanti sotto le bombe sono sospesi tra documento e trasfigurazione immaginifica. Veicolando una riflessione mai banale né didascalica sul rapporto tra la memoria e i suoi supporti materiali. Su cui si depositano le tracce di un’umanità che il peggio della Storia non è riuscito ad annichilire.