Pesaro 57 – Recensione “Film About a Father Who”

Presentato a Pesaro (in concorso) il nuovo film della regista e poetessa statunitense Lynne Sachs

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Alla 57esima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema – Pesaro Film Festival è stato il turno di Film About a Father Who, documentario della regista e poetessa statunitense Lynne Sachs, proiettato in concorso il 23 giugno al Teatro Sperimentale. Trentacinque anni di lavorazione per un film che vuole essenzialmente «fare i conti con la nostra asimmetria», afferma Sachs. Un rompicapo familiare dove i pezzi combaciano e non combaciano, perché forse non è dato alle nostre contraddittorie identità, e alla rete precaria di relazioni che compongono e scompongono, il privilegio di incastrarsi senza ambiguità, senza rimpianti, senza spazi di non detto e non dicibile.

Come suggerisce il titolo, che omaggia la filmmaker, ballerina e coreografa Yvonne Rainer e il suo Film About a Woman Who… (1974), oggetto privilegiato dell’indagine di Sachs è la figura paterna: uomo-maschera parzialmente impenetrabile e indecifrabile già nel sorriso incorniciato dai baffoni a manubrio. Figlio dei fiori e uomo d’affari nel settore delle vacanze in montagna, uomo amorevole ed egoista, padre, marito e traditore che ha lasciato un’eredità ingombrante di risposte e attenzioni mancate ai nove figli avuti con donne diverse. Tra cui c’è la stessa regista, la quale nell’ora e un quarto di lungometraggio e nelle tre decadi di girato ripercorre i rami di un intricato albero genealogico, che inizia con la nonna Maw-Maw, la sua complessa storia di separazione e l’amore-odio per il figlio.

Difficile dire quanto questi elementi possano aver influito nel formare l’uomo con la sua vita sentimentale e sessuale instabile, «senza grammatica». Come è difficile in generale dare e darsi delle spiegazioni soddisfacenti su un padre che non si può né amare né odiare pienamente, perché non si riesce mai davvero a conoscerlo. La ricerca è a tratti frustrante tanto per chi la compie quanto per chi la guarda, perdendosi infine nel babelico intrico delle ferite emotive lasciate nelle partner, nelle figlie e nei figli, e infrangendosi nei reiterati «non ricordo» del genitore ormai anziano, forse l’ennesimo pretesto per non assumersi fino in fondo le proprie responsabilità. Conta però, al dunque, il tragitto segnato da questa archeologia affettiva che è anche un’archeologia dei mezzi di registrazione e visione della vita attraverso il tempo: fra pellicola in 8 mm e 16 mm, videocamera Hi8 e digitale, immagini sgranate e alta definizione.

Più che un percorso lineare dal mistero alla (pur provvisoria) verità, dalla riflessione alla valutazione, dall’ipotesi alla tesi, quello in cui la regista incanala i materiali di mezza vita (e di tante altre vite) è un sentiero circolare in equilibrio (non sempre facile né risolto) tra quelle che lei ha definito «elaborazione della rabbia ed elaborazione del perdono». Ed è anche, però, un manifesto intimamente vissuto del cinema di Sachs (37 film all’attivo, tra corti, doc e lungometraggi di finzione), che lei stessa definisce «costantemente alla ricerca di una struttura». E che, forse, in questo circolo di immagini ed esistenze che si confrontano senza comprendersi mai del tutto, l’ha trovata.