Visti al Torino Film Festival: “My War is Not Over” e “Cento anni”, i film italiani che ci riconnettono con la storia

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AL TFF due esempi nobili di cinema italiano capace di porre e porsi domande fondamentali per il nostro essere persone inserite nella società e nella Storia: My War Is Not Over di Bruno Bigoni e Cento Anni di David Ferrario

Chi è Harry Shindler? E’ un arzillo 95enne che passa il suo tempo ricostruendo le identità e i casi di tanti suoi commilitoni scomparsi in Italia dopo lo sbarco ad Anzio. Con l’aiuto del giornalista Marco Patucchi negli anni scorsi ha ritrovato le tracce e ricostruito le sorti di tanti sventurati. Ad esempio quella di Gabor Adler, l’agente segreto inglese (ma era un ebreo ungherese) torturato e poi fucilato sulla via Cassia e sepolto senza nome. O di Eric Fletcher Waters, sottotenente inglese di cui non si sapeva dove esattamente fosse morto. Shindler lo ha scoperto, senza sapere che il figlio è nientemeno che Roger Waters, l’anima dei Pink Floyd. Queste e altre storie sono raccontate nell’intenso ritratto che Bruno Bigoni gli ha voluto dedicare, con lo stesso titolo del libro che Shindler ha scritto in coppia con Patucchi, My War Is not Over. Un uomo che ha passato decenni ad occuparsi dei suoi compagni morti “perché continuano a parlare. Ovviamente per chi li vuole ascoltare”, un piccolo grande uomo che sta cercando di dare un senso alla fine di tanti giovani, perché questo non possa più accadere. Impattante e calibrato con la giusta misura da un cineasta che ha saputo come “tenere insieme” la commozione, la passione e la lucidità del racconto.

“A che cosa servono i morti?”. E’ la domanda (in fondo non dissimile da quella del film di Bigoni) che si pone Davide Ferrario (e che funge da introduzione a ogni capitolo) nel suo film saggio Cento anni, al cinema dal 4 dicembre distribuito da Lab 80 Film. In quattro episodi, da Caporetto a una tormentata pagina della Resistenza, dalla Strage di Brescia di Piazza della Loggia (28 maggio 1974) all’attuale problema dell’Appennino meridionale che si va spopolando. Quattro pagine chiave di storia patria, con l’ultima non ancora chiusa e che stiamo drammaticamente vivendo senza forse neppure rendercene pienamente conto. “Caporetto è la misura di ogni catastrofe della vita civile di ogni italiano”: tra riprese d’archivio e sul posto, un gruppo di attori si fa voce e riporto di accadimenti (alcuni decisamente sommersi o dimenticati) di quella tragica epopea. La Resistenza vista da un episodio significativo che colpì la famiglia del musicista Massimo Zamboni da lui riportata in libro, ovvero la morte del nonno fascista giustiziato in un agguato da due partigiani, ma anche il successivo, molti anni dopo, regolamento di conti tra i due responsabili. La strage di Piazza della Loggia a Brescia dal racconto (dignitoso e commoventissimo) di alcuni membri dell’Associazione Familiari Vittime della Strage, un raccolta di ricordi e testimonianze di fortissimo impatto emotivo che però si fa lezione di vita: “i morti servono a capire le ragioni per cui sono morti”. Per finire con lo scrittore Franco Arminio che denuncia la “desertificazione demografica” di zone dell’Irpinia e della Lucania, accompagnandoci nei luoghi. A suo modo anche questa una Caporetto, forse meno rumorosa e fragorosa, ma comunque terribile e disperante.

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