Why Not You – Recensione – TFF38

In concorso al Torino Film Festival Why Not You, primo lungometraggio da regista della pluripremiata montatrice e sceneggiatrice Evi Romen

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L’ultimo lungometraggio in concorso del Torino Film Festival è l’austriaco (in co-produzione col Belgio) Why Not You (titolo originale Hochwald, disponibile fino alle 14 del 28 novembre), scritto e diretto da Evi Romen, al suo esordio nel lungometraggio ma già forte di una ventennale esperienza come montatrice (premiata per My Best Enemy, 2011, e Casanova Variations, 2014) e sceneggiatrice (la recente serie M- A City Hunts a Murderer). Per questo Why Not You la regista sceglie di cantare i dolori del giovane Mario (Thomas Prenn), un «ribelle», come lei stessa l’ha definito presentando il film. Ovvero, uno che «prende sempre le decisioni sbagliate, e non si comporta mai come dovrebbe».

Sempre dalla parte del torto perché, parafrasando Brecht, tutti gli altri posti continuano ad essere occupati: specie nel villaggio cattolico del Sud Tirolo dove il giovane vive con famiglia, amici, ex, parenti degli amici (e, forse, persino una figlia). Dove tutti conoscono tutti e tutto (di tutti) ma si parla la lingua «dell’ambiguità», come dice la regista (formatasi a Vienna ma nata a Bolzano). Dunque, al netto dell’aria di montagna, l’atmosfera è asfittica per un giovane bisessuale col sogno di diventare un ballerino. I problemi di droga sembrano allora un sintomo del disagio di Mario, la fuga in una città come Roma la (im)possibile soluzione. Ma una tragedia figlia del nostro tempo irromperà a mettere ulteriormente in crisi il giovane e il suo rapporto col paese d’origine.

È un film di confine e di confini, Why Not You, tematicamente, formalmente, persino geograficamente: in una zona franca tra un’Austria e un’Italia parimenti inadeguate a comprendere e accogliere i sommovimenti della personalità di Mario. E che guardano con sospetto (se non con ostilità) tanto alle varietà di orientamento sessuale quanto alle minoranze religiose, complice anche la paura del terrorismo. Ma è anche un film sospeso tra «nostalgia di un altro tempo» (per esempio in certe scelte musicali) e attualità, con un’impennata in quest’ultimo senso data dalla svolta centrale, che apre a una rappresentazione fortunatamente non banale del radicalismo islamico.

Ma al netto dei molti spunti su un contesto sociale, culturale e persino paesaggistico inconsueto (il titolo originale sta per “alta foresta”), è l’individualità tormentata del protagonista ad accentrare su di sé dall’inizio alla fine l’attenzione. Un «carattere sull’orlo dell’abisso» che, al netto delle sue varie e inquiete metamorfosi «non è mai se stesso» (tranne forse nel momento della danza), e ha il suo simbolo più emblematico nella parrucca bianca che lo accompagna per tutto il film: «Per me», spiega al riguardo la regista, «rappresenta il cappello del fool», termine che può indicare il folle, lo “scemo del villaggio”, ma anche il giullare di shakespeariana memoria, nella cui voce poteva celarsi quella dell’autore. Non a caso quel cappello, prosegue la regista, «inizialmente è un oggetto ridicolo ma che poi provoca invidia. E solleva la domanda: chi è il più folle?».

Voto: ***