Gianfranco Rosi premiato al Bifest

Rosi rivela il suo lato più intimo: dal legame con sua figlia alle relazioni intessute nei luoghi dei suoi documentari, fino ai suoi timori sul futuro del cinema nel post pandemia

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L’occhio poetico di Gianfranco Rosi documenterà presto una delle tante realtà sommerse dell’Italia di oggi. Dopo Sacro Gra, film del 2013 in cui girò scene di vita reale in prossimità del Grande Raccordo Anulare romano, il documentarista internazionale racconterà un’altra realtà del nostro Paese. Una realtà “semi sommersa”, come l’ha definita durante la masterclass che ha tenuto in occasione del Bifest al Teatro Petruzzelli di Bari, dove ha anche ricevuto ieri il Premio Fellini per l’eccellenza cinematografica. “Ho scritto un piccolo soggetto che comincerò a girare a novembre in Italia. Spero di raccontare con uno sguardo diverso un luogo, che per ora non posso svelare. Le realtà sommerse sono ovunque, bisogna guardarle e col tempo riuscire a trovare una forma di linguaggio che le faccia emergere”.

Difficile è anche che emerga la vita privata di Rosi. Ma parlando con lui viene fuori per un attimo quanto un talento, per donare la sua arte, debba sottrarre molto alla vita privata, troppe volte sofferta per via degli strappi che il suo lavoro da regista impone, portandolo via anche per anni dagli affetti più cari. “Ho una figlia, che vedo molto poco e che mi manca molto. Nel momento in cui ci rivediamo sento di avere un legame fortissimo. Pago però un prezzo molto alto. Quando parto per lungo tempo per raccontare una storia – confessa Rosi malinconico – si creano delle forti separazioni. Possono trascorrere anche anni di distacco dal quotidiano per la preparazione di un film. Ne ho realizzati soltanto sei, che purtroppo mi hanno portato lontano da situazioni familiari. Quindi ogni volta è difficile ricostruire e ricreare un’intimità. E questo è sempre doloroso. Infatti, quando termino un film dico sempre che sarà l’ultimo, poi accade qualcosa per cui mi risulta complicato farne a meno. Ma non è per niente facile.”

Una passione incontrollabile, dunque, quella per il cinema da parte del documentarista che ha rappresentato lo scorso anno l’Italia nella corsa alle nomination, e che aggiunge: “Non credo nel cinema del reale, ma in un cinema che possa trasformare il reale in altro, creando una sospensione e un senso di universalità attraverso degli archetipi. Il mio film ideale sarebbe quello senza cineprese, che inizia e non finisce mai”. Forse per questo i suoi documentari, che cominciano con un periodo di conoscenza e osservazione, durano molto tempo. “Notturno – girato sui confini fra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano per raccontare la quotidianità che sta dietro la tragedia continua di guerre civili, dittature, sino all’apocalisse omicida dell’Isis – è il risultato di un viaggio lungo tre anni, in cui ho vissuto uno spaesamento in territori che sono di rottura e digregazione, invece per me sono stati anche luoghi di incontro – spiega il regista. Abbiamo rischiato di essere rapiti. Ci spostavamo con le milizie. E spesso dovevamo lasciare una storia perché diventava pericoloso, e magari ritornarci dopo mesi. Ma quando incontravamo di nuovo quelle stesse persone, da parte loro c’era un segno di profonda gratitudine per non averli abbandonati”.

Nonostante questa esperienza, per Rosi è stato più difficile l’anno appena trascorso. Si è interrogato spesso sul futuro del cinema. Ritiene necessario combattere le piattaforme in streaming per non impigrire il pubblico ancora di più di quanto non sia accaduto in questi anni di pandemia: “Sono stato in Francia da poco per promuovere il mio film ed è stato meraviglioso tornare in sala. Tuttavia sono preoccupato. Nonostante sia la nazione mecca del cinema, si sta registrando il 60% in meno di spettatori. Una debacle completa”.

Mariangela Pollonio