«Sono molto fiera di essere libera, trasversale e trasgressiva e di non aver mai voluto appartenere ad un’unica parrocchia»: parola di Arielle Dombasle, attrice, regista, sceneggiatrice che ha legato il suo nome ad alcuni fra i maggiori cineasti e artisti del secondo Novecento, da Alain Robbe-Grillet a Roman Polanski passando per Chris Marker e, forse più di tutti, Éric Rohmer. Dombasle ha ripercorso la sua carriera alla 61ma Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, dove ha presentato in Piazza del Popolo il recente lungometraggio da lei diretto e interpretato Les secrets de la princesse de Cadignan (2023, dall’omonimo racconto di Honoré de Balzac) e tenuto una conversazione moderata da Valerio Carando.
«Sono nata negli Stati Uniti e cresciuta in Messico da genitori francesi, e questo métissage culturale è diventato la mia cifra stilistica», ricorda l’attrice, che deve alla musica il suo incontro col cinema e col regista che l’ha diretta in pellicole come Il bel matrimonio (1982) e Pauline alla spiaggia (1983, in una parte scritta vent’anni prima per Brigitte Bardot): «Frequentavo il conservatorio, e a un certo punto qualcuno mi ha segnalato che un cineasta stava cercando una giovane donna con i capelli lunghi», in grado di cantare musica medievale, «e questo cineasta era Rohmer». Il primo film in cui la dirige è Il fuorilegge (Perceval le gallois, 1978), tratto da un poema incompiuto del ciclo bretone composto da Chrétien de Troyes.
«Un regista osserva un potenziale interprete di un suo film come un entomologo scruta un altro essere», commenta Dombasle a proposito del suo primo incontro col filmmaker Leone d’oro per Il raggio verde. E che poteva valutare l’adeguatezza di una candidata per una parte prendendoci un thé e dialogando su Molière e Matisse. «Sicuramente Rohmer è stato un regista appassionante, una figura che resterà immortale». Oltre alla celebrata capacità di costruire le sequenze di dialogo, l’attrice ne sottolinea l’«osservazione molto fine sotto il profilo psicologico», dove «gli interpreti erano il vettore del pensiero e della scrittura di Rohmer. Oggi, quando sento recitare un suo testo, ne riconosco le virgole, i segni di punteggiatura».
Con lui, specifica, «non si improvvisava, era una scrittura molto precisa, non era possibile modificare neanche una parola. Ma utilizzava gli attori nel senso bressoniano, di modelli: non amava gli attori, ma le persone naturali che interpretavano i personaggi da lui immaginati». Dombasle cita come esempio la scomparsa Pascale Ogier, che con Rohmer vinse la Coppa Volpi a Venezia per Le notti di luna piena: «Lei aveva adottato una sorta di tic dell’epoca nel suo linguaggio, e lui ha deciso di “infarcire” il suo testo incorporando questo tic, ciò dava molto colore al soggetto che lei interpretava con grandissima naturalezza».
Poi, dopo il successo di Pauline alla spiaggia negli Stati Uniti d’America, arriva per Dombasle la proposta per un prodotto molto diverso dal cinema d’autore d’Oltralpe, la serie Miami Vice. E lei accetta, in nome di quell’assoluta libertà di sperimentare che afferma di aver sempre voluto perseguire nella sua carriera: perché le attrici e gli attori devono «permettersi qualunque cosa», addentrandosi «anche in territori rischiosi». Un «aspetto avventuroso» in cui vede «la forza e la bellezza del mestiere che facciamo».
Ma, indubbiamente, poche esperienze l’hanno segnata artisticamente come il contatto con i protagonisti di una stagione rivoluzionaria e irripetibile del cinema francofono e mondiale: «Ho avuto la fortuna di conoscere, per quanto fossero già avanti con gli anni, Godard, Rohmer, Rivette, e respriare quindi gli anni della Nouvelle Vague». La cui grande lezione, afferma, è stata quella di «considerare la macchina da presa come una stilografica», emancipandosi dagli atteggiamenti «macho» del classico, ingombrante apparato produttivo, e insegnandoci così che «non bisogna lasciarsi intimidire dalla tecnica: non è quello l’aspetto più difficile di fare un film».
Lei stessa si è cimentata nella regia, con lavori come Chassé-croisé (1982) e Les Pyramides Bleues (1988), da lei dedicato ai «grandissimi maestri» Rohmer e Chris Marker. A proposito del secondo, che l’ha diretta in Junkopia (1981), Sans soleil (1982) e Tokyo Days (1988), l’attrice dichiara: «È stato tra i primi a interessarsi alle forme iniziali di immagini virtuali, e il suo punto di vista sulla differenza tra documentari e film di finzione, l’osservazione e la riflessione su quello che è il gesto filmico, sono state delle lezioni veramente fondamentali per me».
Per il lungometraggio d’esordio Chassé-croisé, invece, è riuscita persino a “convincere” Rohmer a recitare, impresa tutt’altro che banale dal momento che lui «faceva il cinema in modo molto segreto, aveva un gusto e una volontà di segretezza e riservatezza che lo portava a mascherarsi quando andava al cinema a vedere i film in sala per non essere riconosciuto».
E per lo stesso debutto Dombasle ha chiesto anche a Roman Polanski, con cui aveva collaborato per Tess (1979): «Avevo bisogno di circondarmi di queste persone di grandissima ispirazione, queste figure tutelari, era un film molto metafisico, e volevo delle persone che potessero esprimere con la sola presenza il loro spessore».
E ne cita altri, l’attrice-cineasta, di nomi che le sono cari. Uno di questi è Jean Cocteau: «L’ho sempre amato: un personaggio doloroso nella sua omosessualità, non si è mai amato, ma per me è stato un grande maestro polifonico, anche lui. E le sue riflessioni sul cinema, sul concetto della luce, sono arricchenti». Ci sono poi Alain Robbe-Grillet e Raul Rúiz, «due figure immense». Per il secondo, cileno fuggito dalla dittatura fascista di Pinochet, ha recitato cinque volte, da Fado majeur et mineur, 1993 a Les Âmes Fortes, 2001). «La cosa fondamentale che mi ha insegnato è che un film non deve necessariamente ruotare attorno a una trama centrale».
Robbe-Grillet invece l’ha diretta in Un belle captive (1983), Un bruit qui rend fou (1995) e Gradiva (2006): «Prima ancora di conoscerlo come cineasta, l’ho scoperto attraverso il Nouveau Roman, è stato un grande innovatore», rammenta Dombasle, elogiando dello scrittore-regista la capacità di «cogliere e descrivere il reale generando un punto di rottura importante». Ma, aggiunge, era anche «un personaggio molto insolente, incuteva un grandisismo timore». Un «grandissimo provocatore, credo che se vivesse oggi non sarebbe più in grado fare nessun film».