#Pesaro59 chiude con Giuseppe Tornatore: «Il film Salvatore Giuliano fu uno shock»

Il cineasta premio Oscar è stato protagonista della giornata che ha concluso la Mostra pesarese, con la proiezione di Ennio e Nuovo Cinema Paradiso e la presentazione del volume Marsilio a lui dedicato. Nella lunga conversazione con la stampa, gli esordi con Il camorrista (di cui presto vedremo l'inedita serie tv), il rapporto con Francesco Rosi e il bisogno di realizzare film ogni volta diversi: "Mi sono sempre illuso di aver zigzagato".

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«La Sicilia mi sembra ancora oggi quello che diceva Leonardo Sciascia: la regione più cinematografica che esista al mondo». Parola di Giuseppe Tornatore, che ha portato un (bel) po’ della “sua” Sicilia e del suo amore per la settima arte all’ultima giornata della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema – Pesaro Film Festival, dove è stato protagonista dell’Evento Speciale sul cinema italiano di questa 59ma edizione. Per l’occasione, il regista premio Oscar ha presenziato alle proiezioni del recente doc Ennio, sul grande amico e collaboratore Morricone, e (per la serata conclusiva della manifestazione in Piazza del Popolo) a quella della versione restaurata di Nuovo Cinema Paradiso, il lungometraggio che gli valse la statuetta dell’Academy.

Il cineasta ha inoltre partecipato a una tavola rotonda che ha preso le mosse dal volume Marsilio Giuseppe Tornatore. Il cinema e i film, a cura del direttore artistico del Festival, Pedro Armocida, e di Emiliano Morreale. Nel libro, tanti interventi critici (le firme vanno da Alberto Anile e Paola Zeni, passando per Gianni Canova, Paola Casella, Ninni Panzera e molti altri), ad esplorare sotto diverse angolazioni l’opera di Tornatore, il quale, tra le pagine, si riserva uno spazio per la lista dei suoi film del cuore.

Fra questi, uno dei capolavori di Francesco Rosi, Salvatore Giuliano, capostipite del nostro miglior cinema d’inchiesta all’alba degli anni Sessanta, e anch’esso emblematicamente ambientato in terra siciliana. «Ricordo benissimo», racconta Tornatore, «quando ho visto quel film: curiosamente non al cinema, in televisione. Poi dopo lo avrei rivisto al cinema, l’ho rivisto mille volte, è un film che massimo ogni due anni rivedo. All’epoca avrò avuto nove o dieci anni, ma già avevo visto tanti film, anche un po’ di quelli di ambientazione siciliana che già si facevano. Quando vidi Salvatore Giuliano mi colpì innanzitutto il tono realistico: trovavo nel film suoni, immagini, situazioni che avevo visto solo nella vita reale. Come le donne urlavano, per esempio, come piangevano a un funerale. Mi ricordo che fu uno shock».

«In più», prosegue, «notai subito un modo di raccontare che non assomigliava assolutamente a niente di ciò che avevo visto fino a quel momento. Capii che col cinema si potevano fare tante cose diverse. Quindi mi legai a quel film, lessi poco dopo il bellissimo volume sulla sua lavorazione scritto da Tullio Kezich, e in seguito ho letto tutto ciò che ho potuto trovare al riguardo. Poi ho avuto la fortuna di conoscere Francesco Rosi, che è stato un amico e di cui sono stato un amico, l’ho frequentato per molti anni, e di questo film non abbiamo mai smesso di parlare. E ancora oggi non smetto mai di pensarci: giorni fa ero a Palermo e in giro per la città ho ritrovato luoghi dove avevano girato alcune delle sequenze più importanti, andarci me le faceva automaticamente rivedere. Insomma, è un film veramente importante, del quale non si può fare a meno».

Tanto più per questo, il regista non si sente di escludere che il lavoro di Rosi lo abbia in qualche influenzato per il suo primo lungometraggio di finzione, Il camorrista (1986), di cui ha ripercorso la genesi: «All’epoca si prendeva un po’ in giro il classico film definito “opera prima e ultima”: c’erano un sacco di opere prime, che rimanevano “ultime” perché non avevano riscontro di pubblico. Molti critici attaccavano questi film dicendo che erano ombelicali, difficili, senza opportunità di futuro. Io mi dicevo che non avrei dovuto cominciare con un film “personale”, avrei dovuto fare un film “oggettivo”».

L’occasione venne dall’incontro col giornalista Joe Marrazzo: «Mi confidò di aver cominciato questo romanzo, teneva le pagine in automobile e la camorra gliela faceva saltare in aria, dovette ricominciare il libro tre volte, tanto che gli dissi: “Ma fatti una fotocopia e te la conservi a casa!”. Mi colpì la sua prospettiva, raccontare la nascita di un’organizzazione criminale dal suo interno: fino a quel momento, ad eccezione forse de Il padrino, i film sulla mafia, sulla criminalità organizzata, erano film in cui questa entità era sempre astratta, misteriosa, per certi versi infallibile nell’attaccare, colpiva e spariva e non sapevi niente. Ancora non c’era stata la grande testimonianza di Buscetta. Mi sembrava allora che raccontare la nascita di un’organizzazione dal proprio interno mi avrebbe consentito di raccontarne anche le miserie, quindi di rendere questo mondo meno infallibile e misterioso. Marrazzo mi aiutò».

Tornatore scelse però di raccontare Il camorrista in una chiave diversa da quella del cinema d’inchiesta, seguendo «la strada del “romanzone”: un racconto popolare, quasi una ballata. Nella seconda e ultima parte c’è un clima forse più vicino a un cinema “di denuncia”». Il discorso poi tocca esempi più recenti di crime all’italiana, come le trasposizioni del libro di Roberto Saviano Gomorra: «Ho visto solo il film di Garrone, che mi è piaciuto moltissimo. Della serie ho visto qualche stralcio. È un modo di raccontare più aggressivo, dove forse, anzi sicuramente, c’è sempre l’approccio al racconto popolare».

Un approccio influenzato anche dall’esordio di Tornatore? «Non lo so. Di sicuro ha anticipato alcune formule che oggi sono molto frequentate: quando ho fatto Il camorrista ho fatto il film e la serie televisiva insieme, girate insieme, con gli stessi attori. Poi non è andata mai in onda, perché il film ebbe disavventure giudiziarie, e quindi poi i produttori decisero di non andare incontro ad altri inconvenienti. Ora però l’hanno tirata fuori, ho fatto una nuova color correction, un nuovo suono, e credo che la potranno finalmente utilizzare».

Quando invece arrivò l’idea per il successivo Nuovo Cinema Paradiso, la tentazione fu di rimandare: «Doveva essere il quarto, il quinto: mi dicevo che dovevo avere più esperienza, perché sapevo che sarebbe stato il mio film più personale».

Del resto, il cineasta ammette di soffrire del «“complesso dell’opera prima”», che gli impedisce, tra l’altro, di stabilire quale tra i suoi lungometraggi abbia costituito per lui l’esperienza emotivamente più intensa: «Affrontare un tema nuovo mi fa sempre sentire come se stessi facendo il primo film, e quindi mi fa sentire le stesse paure, gli stessi timori. In virtù di questo, devo riconoscere che i miei film mi hanno regalato tutti grandi emozioni: il primo, un’emozione indimenticabile, la notte prima del primo ciak non ho dormito neanche un minuto! Nuovo Cinema Paradiso fu un’altra emozione incredibile, perché riuscivo a raccontare questo mondo di cui ero e sono ancora innamorato. Baarìa, un’emozione indicibile: ricostruire il proprio quartiere, il proprio paese come era settant’anni, ottant’anni prima, e come era quando io ero bambino, è stato, anche, un grande privilegio. Quindi non saprei sceglierne uno».

La tensione a differenziare fortemente un film dall’altro caratterizza comunque il percorso creativo di Tornatore, che ammette di reagire con stupore e interesse quando poi gli spettatori più o meno esperti propongono letture unificanti della sua produzione: «Io mi sono sempre illuso di aver zigzagato, di aver fatto film diversi, che non avessero un filo rosso, che quasi non avessero coerenza. Mi piaceva l’idea che il regista di Una pura formalità fosse diverso da quello di Nuovo Cinema Paradiso e dal regista de Il camorrista. Mi piaceva, e mi piace ancora adesso. Però poi quando ascolto questi interventi così interessanti, da parte di studiosi, accademici, mi sorprendo, perché mi fanno vedere il mio stesso lavoro da una prospettiva che forse non avevo voluto vedere».

Tornatore definisce la sua una forma di “fregolismo”, con riferimento all’attore del muto che cambiava costantemente personaggi nelle sue comiche, e fa risalire questo tratto di sé alla sua esperienza giovanile come spettatore: «Mi piaceva che al cinema si programmassero le cose più disparate: un giorno un film mitologico, il giorno dopo un film di Bergman, il giorno dopo un western, poi un film di John Huston e il giorno dopo un musicarello, poi un film comico, poi un film drammatico. Era il flusso che vedevo da ragazzo: e quindi il cinema implicava per me il concetto del cambiare, perché la programmazione necessitava di questo per accontentare una fascia di pubblico più vasta possibile. Ma evidentemente ci sono delle linee interne nei miei racconti che unificano il tutto. Forse».

Di sicuro, una costante del cinema di Tornatore è la passione per la sua regione di provenienza, dove non per nulla continuano a nascere nuovi film: «Esiste un’altra regione piccola come la Sicilia che ha ispirato tanto cinema? La risposta è no. È davvero un caso sul quale si è scritto tanto, ma sul quale si può ancora riflettere, trovare riflessioni più profonde, più articolate. Quindi ancora oggi la vedo come una terra ricchissima, dove il nuovo si aggiunge a tutto quello che c’era stato prima e non era stato raccontato fino in fondo. Una regione ricca di pensieri, di fatti, personaggi, opportunità narrative, anche sperimentazioni se vuoi». E cita alcuni esempi: «Il traditore di Bellocchio è un film straordinario» E ancora, «La stranezza, è un capitolo nuovo nella storia del cinema sulla Sicilia. E giustamente il pubblico lo ha premiato».

Sulla serie tv in cantiere tratta da Il Gattopardo, invece, dichiara: «Non so come sarà, è un progetto azzardato, forte, mi auguro che possa aiutare il pubblico che non ha visto il film straordinario di Visconti, un capolavoro italiano, e non ha letto il libro di Tomasi di Lampedusa, a conoscere quella storia. Io, come amante del film di Visconti, non avrei sentito il bisogno di vederlo raccontato in una serie. Però capisco che ci sono varie fasce di spettatori che probabilmente sono più portate ad accedere a quel racconto attraverso una formula nuova. Da questo punto di vista, lo comprendo e sono pronto anche ad amarlo».

Il regista si è soffermato anche sul suo rapporto con un’altra tipologia di film che è stata molto importante per la sua carriera, il documentario, nel quale confessa di trovare una libertà che il cinema di finzione non può strutturalmente dare: «Da ragazzo, quando ho cominciato a usare la mia cinepresa, filmavo quello che mi capitava: un giorno c’è uno sciopero e andavo a filmare lo sciopero. Un giorno avevo un’altra bobina di pellicola, mi guardavo intorno, c’erano gli anziani che facevano la fila all’ufficio postale per ritirare la pensione, e andavo a riprenderli. Un mese dopo compravo altre due bobine, c’era una processione, andavo a riprendere la processione. Scene di vita quotidiana».

Dalle quali, via via, potevano emergere «schemi di racconto, non precostituiti. E questo era bellissimo, oggi si direbbe “work in progress”. I documentari che poi ho fatto, compreso quello su Lombardo e quello su Morricone, hanno tutti come caratteristica quella di essere lavori “aperti”: sì, qualche volta mi chiedono di scrivere il soggetto, però lo consegno e non lo seguo mai. Anche per Ennio avevo scritto un trattamento, consegnato e mai seguito. Mi sono lasciato prendere dall’istinto, dalla mia amicizia con Ennio, cercando di raccontarlo per quello che era, al di là di ogni schema prestabilito». Nella finzione invece «la sceneggiatura è decisiva, ci vuole. Sì, forse un giorno sei sul set, ti viene un’idea e cambi qualcosa, ma il film è quello. Quindi mi piace stare “con un piede in due  scarpe”».

Come fruitore di cinema, invece, Tornatore confessa senza polemica di non frequentare molto le piattaforme, mentre non ha perso l’abitudine di recarsi in sala: «Anche se non ho la possibilità di andarci spesso come una volta, quando ci andavo quasi tutti i giorni. Però una volta a settimana ci vado sempre». L’ultimo che ha visto è stato il trionfatore ai Nastri d’argento 2023 Rapito di Marco Bellocchio, «che mi è piaciuto moltissimo».

Nessuna anticipazione, infine, sui nuovi progetti a cui il cineasta sta lavorando (due, accavallatisi a causa del Covid): «Non posso dire niente, perché in tutti questi anni ho scoperto sulla mia pelle che parlare prima di un film porta veramente male, a volte l’ho fatto e il film è saltato: di Leningrado ne parlai prima e non si è fatto. E anche di altri progetti ho parlato prima e non si sono mai fatti. Dei film secondo me uno deve parlarne quando li ha finiti. Oggi a maggior ragione, per quello che sono i sistemi di comunicazione: se io dicessi: “Sto preparando un film su questo”, uscirebbe e la gente penserebbe già che sia fatto. La gente legge: “Sta facendo un film su La montagna incantata di Thomas Mann”, e pensa che tu già l’abbia fatto. Pensano addirittura di averlo visto! Succede. Qualche volta ho trovato recensioni di film che non ho fatto, con tanto di stelline».