#Pesaro59 – Dante Ferretti si racconta: «Dissi a Scorsese: perché non giriamo Gangs of New York a Cinecittà?»

Festeggiando i suoi ottant'anni, il pluripremiato scenografo italiano ha presentato alla Mostra di Pesaro il film "Hugo Cabret" e la sua autobiografia: tra ricordi di gioventù a Macerata e aneddoti dai set di Fellini, Pasolini, Scorsese

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È una vita che sa di cinema fin dall’inizio, quella dello scenografo tre volte premio Oscar Dante Ferretti, ospite speciale il 22 giugno della 59ma Mostra Internazionale del Nuovo Cinema – Pesaro Film Festival, dove ha presentato il film che gli è valso il terzo Academy Award, Hugo Cabret, e la sua autobiografia (scritta con David Miliozzi) Immaginare prima. Le mie due nascite, il cinema, gli Oscar, edito da Jimenez.

Una storia che inizia a Macerata, dove il futuro collaboratore di Federico Fellini, Pier Paolo Pasolini, Elio Petri, Marco Ferreri, Martin Scorsese e tanti altri, nasce ottant’anni fa. E dove i grandi eventi dell’Italia che attraversa la Seconda guerra mondiale gli piovono, letteralmente, addosso. Svelando già, forse, una vocazione: «Quando avevo un anno e mezzo», racconta, «dei piloti inglesi che volevano bombardare la caserma della città, presero invece casa mia. Crollò completamente, rimasi sotto le macerie. La mia famiglia mi cercò, a un certo punto sentirono dei rumori, alzarono il mobile che mi era caduto addosso, e io appena li vidi dissi: “Ciak!”. Così dicono loro, almeno».

Sia come sia, la passione per il grande schermo per Ferretti risale alla più giovane età: «La domenica mi portavano sempre a vedere i film. Il primo fu I ragazzi della via Paal, in una sala parrocchiale, c’era il sacrestano che girava il proiettore. Mi piacevano così tanto che, di notte, mi alzavo e andavo a rubare i soldi dalle tasche di mio padre. Poi i pomeriggi gli dicevo che andavo a studiare con i miei amici, e in realtà andavo al cinema! Uscivo alle 3, e andavo a vedere un film. Uscivo da quello, e ne andavo a vedere un altro. Finiva quell’altro, e ne andavo a vedere un terzo! E arrivavo a casa sempre molto tardi, mio padre mi chiedeva: “Ma che hai fatto?”, e io “Lascia perdere, ho studiato tantissimo!”. In realtà, dal momento che non studiavo mai, ero sempre rimandato a ottobre, e in ginnastica avevo addirittura 2!».

Ben presto, nasce la consapevolezza della vocazione a cimentarsi nell’industria cinematografica: «Mi ricordo che incontrai uno scultore di Macerata, Umberto Peschi: gli dissi che avrei voluto lavorare nel cinema ma non sapevo cosa fare. Lui mi rispose: “Dovresti fare lo scenografo!”, e mi spiegò cos’era. Allora dissi a mio padre che appena finito di studiare a Macerata sarei voluto andare a Roma all’Accademia di Belle Arti, e lui mi fece: “Ma figurati, ti bocciano sempre!”. Invece, gli ultimi due mesi prima dell’esame di Stato mi misi a studiare sul serio».

Segue una maturità conseguita con voti (inaspettatamente) brillanti, il viaggio nella Capitale e l’inizio dell’apprendistato. Ma, paradossalmente, gli esordi sul set lo riportano in terra marchigiana, a lavorare per due film di Domenico Paolella, dove il giovanissimo Ferretti inizia subito a farsi notare: «Tutti dicevano: “Ammazza, sto ragazzetto!”». Tanto che l’organizzatore generale di una di queste produzioni gli presenta Luigi Scaccianoce, scenografo (5 volte Nastro d’argento) che lo prende a lavorare con sé. Si inizia con La parmigiana di Antonio Pietrangeli (1963), si prosegue con Il vangelo secondo Matteo di Pasolini, con cui la collaborazione sarà particolarmente lunga e proficua: «Lui aveva le idee e io lo seguivo, a lui questo stava bene. Abbiamo fatto undici film insieme, ma ci davamo sempre del lei».

Fondamentale per Ferretti, sempre al seguito di Scaccianoce, l’esperienza col Satyricon di Fellini, che per la prima volta si accorge di lui: «A Fellini Scaccianoce stava cordialmente antipatico. A un certo punto, venne in studio e disse: “Senti, Scaccianoce, ho bisogno di un ambiente beige, ma un beige particolare”. Lui gliene fece vedere una serie e Fellini diceva sempre no. A un certo punto, io raccolgo un pezzo di cartone da terra e dico: “Scusate, per caso un colore come questo?”. E Fellini fa: “Ecco, questo è quello che voglio! Ma tu chi sei?”. E io: “Come, chi sono?! Sono tre mesi che sto facendo questo film!”».

Altro film determinante per lo scenografo sarà Medea, ancora per Pasolini, che lo porta a recarsi in Cappadocia: «Era tutta gente che conoscevo, quando arrivo mi danno il benvenuto, gli domando: “Non c’è lo scenografo?”. Mi dicono: “No, guarda, non abbiamo girato nemmeno un metro di pellicola, sta aspettando te, Pasolini! Dobbiamo girare fra quattro ore, prima che tramonta, perché c’è l’inquadratura della Callas sul carretto che va contro il sole”. “Bene, e che aspettiamo?”, domando. “Il carretto!”. E lo feci io: c’era un carrettaccio buttato da una parte, mi sono fatto aiutare dagli altri che stavano lì facendomi dare dei costumi, delle stoffe. Alla fine Pasolini disse: “Bene, bravo Ferretti, era quello che volevo!”».

Con Fellini, invece, verranno sei lungometraggi, tra cui La città delle donne, sul set del quale Ferretti fa la conoscenza di Martin Scorsese: «Venne a Roma con Isabella Rossellini, si sposarono proprio lì, e lei, che conosceva Fellini, lo presentò a Scorsese. Stavamo girando in un bordello, e mi ricordo che Fellini andò da Scorsese e gli disse: “Senti, Martin, questo non mi pare il posto migliore per una luna di miele”. Lui si mise a ridere». Il momento magico della collaborazione col cineasta newyorchese inizia dopo il successo de Il barone di Münchhasusen di Terry Gilliam: fa scalpore il lavoro dello scenografo marchigiano, che verrà chiamato per L’età dell’innocenza, poi per Casinò, Kundun, Al di là della vita, Gangs of New York, The Aviator (primo Oscar), Shutter Island, Hugo Cabret (terzo riconoscimento dell’Academy dopo Sweeney Todd di Tim Burton) e Silence.

In Hugo Cabret, lo scenografo ha attinto dalla sua esperienza giovanile nella città d’origine: «Per la torre mi sono vagamente ispirato alla torre di Macerata: c’era un orologiaio che andava due volte al giorno a caricare l’orologio della torre, e a volte mandava il figlio, io conoscevo bene questo figlio. Mi vedeva e mi faceva: “Dante, andiamo su a caricare l’orologio”. C’era una scala a chiocciola, che nel film ho fatto in maniera diversa. Poi, una volta caricato l’orologio, andavamo sopra e ci attaccavamo a suonare le campane, il padre s’incazzava e noi scappavamo!».

Altro aneddoto condiviso da Ferretti, quello su Gangs of New York, quando propose a Scorsese a girare il kolossal a Roma: «Eravamo a Venezia con Armani, Scorsese e Francesca Lo Schiavo, mia moglie con cui ho diviso sei Oscar, tre io e tre lei. A un certo punto, a Scorsese, che si muoveva sempre con l’aereo privato, ho detto: “Perché non ci dai un passaggio anche a noi? Vai a New York, ti fermi un momento a Ciampino”. In aereo, già si parlava di Gangs of New York. Gli ho detto: “Ma perché non lo facciamo a Cinecittà?». E se il regista inizialmente era scettico, Ferretti non si rassegnò: «Lo portai in giro per Cinecittà, lui disse “Beh certo lo spazio c’è: fai qualche disegno”». Sappiamo com’è andata: le riprese avvennero interamente negli studi romani.