Ca’ Foscari Short Film Festival: le tante forme di un cinema “migrante”

Vi raccontiamo i primi corti in concorso al festival dell'ateneo veneziano: Dal meta-doc spagnolo As dúas en punto all'animazione francese di Tear Off, passando per il thriller iraniano Bloody Gravel, la distopia polacca Rozkwit Zimowy, il russo-georgiano Runaway e la commedia british Not For Sale

0

I primi titoli del Concorso Internazionale al Ca’ Foscari Short Film Festival, proiettati il 22 marzo all’Auditorium Santa Margherita di Venezia, ci hanno dato già un significativo assaggio della varietà di generi, stili, riferimenti dei giovani filmmaker selezionati alla manifestazione. Una varietà che rispecchia le molteplici strade in cui si ramifica una settima arte in rapido cambiamento, ma da cui emergono nuclei tematici comuni in grado di dirci qualcosa (anche) sulla realtà del nostro tempo e sulle questioni che muovono lo sguardo delle nuove generazioni di registi.

Tra quelle che abbiamo visto, molte e differenti tra loro sono le storie di migrazioni. Fenomeno antico come l’umanità e tanto più emblematico di un’epoca, l’attuale, dove le iperconnessioni digitali non corrispondono necessariamente a una maggiore vicinanza tra gli individui e i popoli. Ed ecco allora che i viaggi mostrati mettono in gioco dialettiche non scontate di solitudini e alleanze, incomunicabilità e dialoghi protesi oltre confini e stereotipi.

È il caso, quest’ultimo, del «pellegrinaggio» laico di Uliane Tatit, regista del meta-documentario spagnolo As dúas en puntoAnarchism at Two O’Clock (Escuela de Cine de Barcelona), forse l’oggetto più spiazzante e stratificato di questa tornata di concorrenti. Un cammino per Santiago de Compostela sui luoghi della vita e di Maruxa e Coralia Fandiño Ricart, “Le Dos Marias”, sorelle anarchiche nella Spagna tra Guerra Civile e franchismo. Una ricerca storica, umana, estetica, politica su due figure di cui rimangono poche immagini e ancora meno ricordi, assieme alla scultura che le raffigura nel parco dell’Alameda.

Cinema del reale intervallato da squarci onirico-allegorici che rievocano, sotto le tinte del rosso e del giallo di una nazione a confronto con le ombre del suo passato, gli ultimi minuti di Maruxa e Coralia, prima della loro «ultima tappa» alle ore 14 di un giorno (e di un Paese) senza libertà. Quella di Tatit, allora, è una riappropriazione del femminile oppresso, violentato, mistificato e occultato dalla narrazione dei vincitori di allora (e dei nostalgici di oggi). Dove le domande e le riflessioni dell’autrice visitano polemicamente una memoria sbiadita e inquinata, e ricostruisce un’identità obliata all’insegna di una vitalissima, antiautoritaria espressività.

Un’immagine di As dúas en punto – Anarchism at Two O’Clock

Ci riporta invece alle traversate da un Medio Oriente martoriato, di quelle tragicamente al centro delle nostre cronache, il thriller on the road iraniano Bloody Gravel di Hojat Hosseini (Iranian Youth Cinema Association, Teheran). Dove una donna muta incinta e il suo accompagnatore sono l’anello debole di una claustrofobica carovana di antieroi che attraversa clandestinamente un confine di terra arida. Una parabola esposta per ellissi, dove le parole sono vane e ciò che conta sono le scelte, che svelano lati inattesi dei protagonisti.

Viaggiano anche i protagonisti di Rozkwit Zimowy – Winter Bloom di Ivan Krupenikov (Warsaw Film School), che conferma, dopo il recente 2028: La ragazza trovata nella spazzatura di Michal Krzywicki, il momento fertile per il genere distopico in Polonia. E in questo plumbeo futuro (prossimo?) che porta alle estreme conseguenze le inquietudini odierne sull’irrisolta emergenza ambientale e le diseguaglianze in una società disumanizzata, si respira (insieme alle polveri scure di un’atmosfera ormai compromessa) aria del caposaldo Blade Runner (sembra figlio di Rick Deckard il loner disincantato al centro della vicenda). Ma non mancano le citazioni da Matrix e soprattutto la rarefatta tensione metafisica de I figli degli uomini.

Una scena di Rozkwit Zimowy – Winter Bloom

Le asperità masticate da chi è male accolto nel Paese d’approdo informano Runaway di Salome Kintsurashvili (Moscow School of New Cinema), dove la regista, partendo da esperienze autobiografiche, mette a fuoco una famiglia georgiana immigrata in Russia. E che si trova a dover ospitare un visitatore dai trascorsi torbidi. Sfumature di noir innervano lo spaccato socio-psicologico che si rifà alla miglior tradizione del cinema russo, osservando da prospettive inconsuete gli spazi di una quotidianità sospesa, dove le parole sono ridimensionate in favore della polivalenza ambigua di volti e luoghi.

Non a caso, quello emerso dalla prima giornata del festival di Ca’ Foscari è un cinema che gioca (anche) con l’equivocità dei linguaggi. Come fa il divertente e intelligente Not For Sale di Alejandro Sánchez Porras e MIRIAM (Edinburgh Naper University), dove la truffa (a fin di bene) prende di mira i ricchi (e non sempre competenti) avventori delle gallerie d’arte contemporanea, assieme al giudizio (arbitrario?) di sedicenti esperti su un’opera che, prima della fine, non ci verrà mai mostrata. Una satira che riporta alla mente il cinema di Mariano Cohn e Gastón Duprat, tradotto nelle cadenze della miglior commedia british (su temi analoghi, ad esempio, The Duke del compianto Roger Michell).

L’eterogeneità formale è anche esercizio alla sperimentazione dei punti di vista più disparati. Come quello di un’ape, nell’animato Tear Off di Clément Del Negro, Charlotte Fargier, Héloïse Neveu, Camille Souchard, Nalini Baschin, Mikko Petremand e Matthias Bourgeuil (Supinfocom Rubika). Il più breve, ma non certo il meno denso dei lavori sin qui presentati, immergendoci nella minuscola vastità di un alveare. Dove gli insetti non sono antropomorfizzati come negli illustri predecessori A Bug’s Life e Z la formica, e l’epica è restituita (già) nella tessitura sonora, tra ali che sbattono e zampe che si muovono sul terreno. Con un effetto di straniamento che fa riflettere tanto più sulla complessità (maltrattata) del mondo intorno a noi.