I tanti volti del potere nel penultimo gruppo di corti in gara allo Short

Si muovono fra tiranni e persone comuni in lotta i lavori presentati alla manifestazione veneziana il 22 marzo e in replica il 23, ore 15.30, presso il Museo di Palazzo Grimani.

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È il potere, in accezioni e forme differenti, l’elefante della stanza di tutti i corti della quarta sestina di titoli al Concorso Internazionale del 14° Ca’ Foscari Short Film Festival. Il potere politico, il potere che esercitiamo (o cessiamo di esercitare) su noi stessi, quello che reclamiamo per far valere i nostri diritti, e anche quella forma devastante di massima anarchia del potere che è la guerra.

Si confrontano due diversi dispotismi in Baggage (di Hamid Bahrami), seconda opera iraniana in gara, ma lontanissima dai moduli realistici di The Borders Never Die: qui siamo piuttosto dalle parti di una distopia neo-western pulp e grottesca, tra colpi di scena, citazioni e pallottole, quasi come se un Quentin Tarantino in vena di pamphlet avesse optato per una trasferta lampo nella Repubblica Islamica.

Il saloon in questo caso è la hall dell’albergo gestita con piglio autoritario da un piccolo, avido padrone coadiuvato da due surreali dipendenti (di cui uno prende la via della toilette ogni volta che arriva un ospite). Il bandito della storia ha una misteriosa valigia rossa al seguito, e il pistolero alle sue calcagna è un disfunzionale sceriffo in nero dietro cui non è difficile leggere l’allegoria di uno Stato che è solo un tiranno un po’ più grosso rispetto al miserabile albergatore.

Vittime e carnefici, dunque, come in un dei più cupi e dolorosi fra i lavori in competizione, il libanese Malakiun (Not Yours, di Lama Mohamad Youssef), dove il tema, pesante come un macigno, è quello degli abusi sessuali incestuosi tra le mura domestiche. E dove il potere è quello che, a un semplice suono di passi, fa rannicchiare spaventato un bambino condannato a non poter diventare adulto – o un adulto cui è stata negata la sua infanzia, in un circolo dove ogni pulsione di rivalsa liberatoria e rovesciamento brutale dei ruoli è orientata a scoppiare come una bolla di sapone.

Totalmente diversa invece la relazione familiare messa in scena nel thailandese Hā’ōẏā’i miṭhā’i (The Sweetness of Air, di MD Rabbi Bhuiyan), che riporta alla ribalta il nodo (frequentatissimo in questo Short) dei conflitti armati e del loro riverberarsi sui più piccoli. Tra cui il giovanissimo protagonista che vaga per un Paese ferito da bombe e spari e attraversato da cortei invocanti (a costo della vita) pace e indipendenza. E l’apologo antibecillista risulta qui tanto più potente nella tessitura di contrasti fra ombre e luci, come quelle della lanterna con cui il ragazzino cerca nella notte la madre scomparsa. Trovandone forse un’altra nella terra finalmente liberata dalla violenza cieca degli esseri umani.

Si torna poi a misurarsi con i generi nei tre successivi lavori, e in particolare è il noir ad essere il più gettonato: di nuovo in forma di commedia nerissima nel rumeno Jackpot (di Márk Makkai) e tutto rinchiuso entro la tormentata intimità del protagonista nel polacco Pierwszy taniec w chmurach (Dancing on a Cloud, di Michał Mieszczyk).

Nel primo gli archetipi del gangster movie sono deformati postmodernamente nella gerarchia di una parodica banda capeggiata da un nevrotico boss, e relegata ad essere solo parte di una barocca pulp fiction a uso e consumo del vero, ludopatico e cialtrone giocatore. Votato tanto più alla sconfitta è il personaggio al centro del secondo, aperto dai vapori bianchi e dalla musica irreali di un paradiso artefatto e velleitario, edificabile solo ridiscendendo nell’inferno del narcotraffico al confine ucraino. E lo scacco, con la fatale comparsa di un terzo elemento del triangolo, è anche quello dello stesso sviluppo crime, impossibilitato a estrinsecarsi fuori dalla coscienza impotente del suo antieroe.

Ci presenta al contrario una memorabile parabola di empowerment femminile Korak nazad (A Step Back, di Sofija Nedeljković), tra i veri gioielli della selezione di Short 2024: un musical sociale di 23 minuti a misura dei sogni, disillusioni e nuovi obiettivi di una donna lavoratrice rimasta incinta e per questo licenziata dal datore di lavoro. I colori luminosi e l’ottimismo romanticheggiante si fanno allora sempre più posticci in una Serbia che sembra diventata la brutta copia degli USA, tra ricatto dell’assicurazione medica e ossessione (soprattutto maschile) per le armi. Ma l’esito non è alla Dancer in the Dark, trovando la sintesi in un percorso di lotta che da individuale si fa (anche) collettivo, senza nulla togliere all’asprezza di una denuncia che non fa sconti.