Il Ca’ Foscari Short Film Festival viaggia nel mondo di Philippe Le Guay

Il 21 marzo all'Auditorium Santa Margherita il regista francese, ospite della manifestazione, ha tenuto una masterclass dove ha ripercorso la sua carriera sulla scorta di sei tra i suoi lungometraggi.

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Una giornata densa di ospiti e approfondimenti, quella del 21 marzo al 14° Ca’ Foscari Short Film Festival, che ha visto, tra le altre cose, l’intervento della fotografa e regista giapponese Ninagawa Mika (presentando accanto alla direttrice della manifestazione Roberta Novielli la sua autobiografia Diventare Ninagawa Mika) e il focus sul regista Faraz Arif Ansari (per lo spazio sul cinema indiano a cura di Cecilia Cossio), di cui gli spettatori dell’Auditorium Santa Margherita hanno potuto vedere i corti Siberia (2015), Sisak (2017) e Sheer Qorma (2021), brani di una filmografia che ha spesso illuminato la (difficile) condizione delle persone LGBTQ+ nell’India dove l’omosessualità è stata depenalizzata solo dal 2018. Piatto forte del pomeriggio, una densissima masterclass di due ore tenuta da Philippe Le Guay, sulla scorta di sei sequenze tratte da altrettanti suoi lungometraggi.

Parigino, regista e sceneggiatore ma non attore, precisa lui stesso correggendo un’inesattezza della sua pagina Wikipedia, Le Guay ha dialogato con le docenti di Ca’ Foscari Gabrielle Gamberini e Marie-Christine Jamet, rispondendo poi ad alcune domande del pubblico, in quella che è stata, come da titolo dell’incontro, una vera e propria immersione nel suo mondo, cioè in un’opera che ha toccato le corde della commedia e del dramma e alla cui origine c’è la vorace passione giovanile per il cinema: «È stata la mia voglia di vedere film che mi ha poco a poco condotto a farne, durante la mia adolescenza ne guardavo 2 o 3 al giorno», confessa.

Dopo gli studi e alcuni corti (tra cui Le Clou, ispirato all’infortunio “cristologico” di un compagno ai tempi in cui frequentava una scuola cattolica), arriva Il lungometraggio, d’esordio, Les deux Fragonard (1989), sul pittore francese rococò del XVIII secolo: «Era un film molto ambizioso che non ha avuto nessun successo», ricorda, «mi ci sono voluti anni per guarire da questa ferita, ma ciò accade spesso quando si hanno dei sogni troppo grandi».

L’incidente comunque non ha paralizzato l’attività di Le Guay, come dimostrano i sei titoli attraverso cui si è articolata la conversazione all’Auditorium, tutti accomunati, secondo Gamberini, da un elemento che si potrebbe definire il «granello di sabbia nell’ingranaggio», capace di «far esplodere tutti i sistemi stabiliti», dalla famiglia al posto di lavoro.

Il regista Philippe Le Guay.

Ad inaugurare l’excursus, la graffiante meditazione sul denaro de Il costo della vita (2003): «Come i soldi vengano spesi o meno ci rivela i personaggi nella loro intimità. Mi interessava molto studiare questo rapporto», spiega il regista, che per questo affresco satirico dichiara di essersi ispirato al cinema italiano: «Perché ha veramente l’arte di raccontare i difetti, le debolezze dell’umano, penso in particolare ad Alberto Sordi che sapeva incarnare aspetti come la meschinità, la grettezza, la mancanza di coraggio».

Segue Troi huit, dove lo sguardo di Le Guay si sofferma sul rapporto vittima-carnefice tra due operai che si riverbera sul figlio del protagonista. «In realtà», riflette il cineasta, «quando c’è un uomo che domina un altro o che fa pagare qualcosa un altro si instaura sempre una relazione morbosa, intima, dove entrano in gioco gli opposti, attrazione come repulsione, amore come odio, che può trasformarsi in violenza. I personaggi vivono queste situazioni ma non hanno gli strumenti per razionalizzarle».

Un film, precisa Le Guay, «ispirato a una storia vera che accadde in una fabbrica, ma ho anche aggiunto un aspetto personale perché dai 13 ai 17 anni sono stato in un collegio dove ho assistito a questi rapporti di dominazione-sottomisione che si possono instaurare tra i ragazzi».

Il titolo successivo è uno tra i più noti del regista, Molière in bicicletta (2013), omaggio alla pièce Il misantropo del grande drammaturgo francese («È stata scritta nel diciassettesimo secolo ma nulla è cambiato», afferma Le Guay): al centro il contrasto fra «il personaggio deluso dall’umanità, che vede soprattutto le bugie e le menzogne» e l’altro «molto più indulgente», in una «relazione conflittuale ma sorretta anche da una fascinazione reciproca».

Come quella del filmmaker per il protagonista e suo attore feticcio, Fabrice Luchini, da cui è nata anche l’ispirazione per il lungometraggio: «Ci siamo incontrati sull’Isola di Ré, eravamo in bicicletta, gli ho chiesto: “Come mai sei da solo su quest’isola come il Misantropo?”. E lui ha cominciato a recitare tutto il primo atto della commedia! Ascoltandolo sulla bicicletta, il film si è imposto quasi come un’evidenza ai miei occhi, un tipo di esperienza molto rara».

L’ironia di Le Guay tocca poi la crisi ecologica e la condizione degli allevatori di un piccolo centro in Normandie nue (2018): «La cosa drammatica è che la profezia del film si sta avverando», commenta, «Sei, sette anni fa la Normandia era ancora verde perche pioveva parecchio, ma ogni anno osserviamo degli alberi che muoiono»: ma, oltre che di riscaldamento globale, il film parla anche e soprattutto di «agricoltori in grandissima difficoltà, schiacciati da prezzi imposti e in particolare dal prezzo del latte».

Trovando un modo poco ortodosso di attirare l’attenzione sui loro problemi nel progetto di un fotografo d’arte americano specializzato in nudo: Così «siamo all’incrocio tra un dramma sociale vissuto da questi contadini e la visione completamente cerebrale e astratta del fotografo, un contrasto che genera la forza comica del film». Proprio il tema della nudità dei personaggi ha fornito al cineasta una chiave di lettura poetica: «Gli agricoltori, come tutti quanti noi, non sono abituati a mostrarsi nudi ma accettano per solidarietà: la ripresa è molto pudica, fatta da un elicottero, e il film è come se finisce sull’immagine di un Adamo e una Eva che hanno ritrovato la loro innocenza».

Toni più cupi invece per il recente Un’ombra sulla verità (L’homme de la cave, 2021): «Sino ad allora avevo fatto film piuttosto leggeri», racconta Le Guay, «ma con questo ho voluto affrontare un argomento scottante, attuale, quello delle teorie complottiste, di cui fa parte anche il negazionismo dell’Olocausto». Misurandosi così col problema «delle fake-news, bugie che ci vengono imposte come verità: anche di Stato, come nel caso di Donald Trump».

Ma si torna a sorridere con Le donne del 6° piano (2011), basato anch’esso su reminiscenze autobiografiche del regista. Mettendo in scena, in un palazzo della Parigi anni ’60, la vicenda di un agente di cambio che supera gli steccati classisti della sua famiglia altoborghese facendosi contagiare dalla vitalità delle domestiche spagnole nei più modesti appartamenti all’ultimo piano.

«In questo film», sottolinea il regista, «volevo soprattutto esprimere l’idea dello spaesamento, dell’avventura. Pensiamo sempre che l’avventura sia partire, prendere un treno, ma nel caso del protagonista lui quest’avventura l’ha scoperta qualche metro sopra la propria testa». La storia ci suggerisce così che «tutti noi, nelle nostre piccole vite, possiamo aprire delle porte su spazi completamente diversi», offrendo la «metafora del nostro desiderio di spostarci e scoprire mondi diversi».