#Pesaro58 – Mario Martone: «Il mio lavoro a metà tra un giardiniere e un mago»

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Il regista, ospite d’onore della giornata conclusiva della 58ma Mostra Internazionale del Nuovo Cinema – Pesaro Film Festival, ha presentato in quella sede il libro a lui dedicato, a cura di Pedro Armocida e Giona A. Nazzaro

L’ultimo giorno della 58ma Mostra Internazionale del Nuovo Cinema – Pesaro Film Festival è anche il giorno di Mario Martone, ospite d’onore di una tavola rotonda mattutina al Centro Arti Visive Pescheria, dove è stato presentato il volume Marsilio Mario Martone: il cinema e i film, a cura di Giona A. Nazzaro e del Direttore di Pesaro 58 Pedro Armocida.

A seguire, la Mostra ha offerto le ultime portate della rassegna dedicata al regista, con l’episodio de I vesuviani La salita e il primo lungometraggio del regista, Morte di un matematico napoletano (entrambi proiettati al Teatro Sperimentale), per finire col recente Nostalgia (già in concorso a Cannes 2022) per il pubblico del Cinema in Piazza. Senza dimenticare, allo Spaziobianco, la versione aggiornata del film-flusso dove, per la durata di oltre 10 ore, sono montati in modo non cronologico brani dei lavori del regista (che lo ha definito «qualcosa che mi rappresenta molto»).

«Sono legato a Pesaro da anni», ha affermato durante la tavola rotonda Martone, ospite del Festival per la prima volta ma che nella città ha svolto regie teatrali e scoperto il genio di Gioacchino Rossini, con la sua «comicità sublime, di una cattiveria meravigliosa, con uno sguardo così disincantato eppure così umano», che ricorda non pochi luoghi del cinema di Martone. Il quale, prosegue, considera Pesaro «luogo della cinefilia più bella, più viva, sempre avanti, non intellettualistica ma autentica».

Un amore ricambiato, sin dalla presentazione del volume che ha visto gli interventi di vari co-autori del volume, come i critici Bruno Di Marino, Gianfranco Capitta, Roberto De Gaetano e Bruno Roberti, ma anche altri estimatori illustri come Fabio Ferzetti e grandi collaboratori del regista come l’attrice Iaia Forte, il direttore della fotografia Renato Berta e, soprattutto, Ippolita Di Majo, co-sceneggiatrice fissa e compagna del cineasta anche nella vita. Un dato non secondario, giacché, ha rimarcato Martone, «l’amore è una benzina come non ce ne sono di più potenti al mondo».

E la conversazione è stata dunque un viaggio denso ed emozionante in un percorso artistico oggi più intenso e fertile che mai, tra grandi film realizzati a pochissima distanza l’uno dall’altro, regie d’opera e un nuovo progetto su Massimo Troisi. La conferma di quello spiazzante debutto cinematografico nel 1992 (dopo la dirompente attività teatrale esplosa col gruppo Falso Movimento): quando, ricorda Nazzaro, «ci fu la percezione un po’ oscura ma in qualche modo nettissima che qualcosa di irreversibile era accaduto». Ovvero, l’avvento di «una nuova personalità d’autore con cui tutti avremmo dovuto continuare e a fare i conti».

Un autore, prosegue il critico, «profondamente europeo, contemporaneo», e insieme «collocato a sud», anche rispetto ai discorsi dominanti del tempo, portatore di una pratica del cinema «costantemente contaminata», spesso destabilizzante. E, sottolinea lo studioso, «se il lavoro del libro è finito, il lavoro di Mario è ben lungi dall’essere concluso», e anzi è destinato certamente a «mettere in crisi tutto quello che si è detto, costringendoci, per fortuna, a rimettervi mano».

Martone, dal canto suo, racconta di aver vissuto l’esperienza di questo libro all’insegna di «qualcosa che ha a che fare con l’amicizia». Una dimensione ch, anche nel lavoro di Martone, vuol dire «una disposizione fraterna», ovvero «qualcosa che politicamente è contrario all’idea paterna e patriarcale: una posizione “pasolinana”, in questo senso: essere tra persone con cui si collabora, con cui ci si vuole bene, si può e si deve discutere, litigare, si cercano soluzioni. Si cerca di aprirsi, di aprire quelli che chiamo dei campi di forza. È un lavoro a metà tra il giardiniere e il mago, tra il disporre gli elementi nella maniera giusta e l’imponderabile».

Ed emerge in effetti come la cifra personale delle opere di Martone poggi anche sulla sua capacità di relazionarsi e tirare fuori il meglio da chi gli è intorno. Come gli attori Tommaso Ragno e Francesco Di Leva, entrambi ex allievi del regista e vincitori del Nastro d’Argento 2022 per Nostalgia: un film che, ha spiegato Martone, prende le mosse (come il precedente Sindaco del Rione Sanità), proprio dall’incontro con Di Leva, fondatore e animatore del NEST, importante esperienza teatrale con i giovani del quartiere partenopeo di San Giovanni a Teduccio, dove fu messa in scena la versione teatrale della commedia di Eduardo De Filippo. «Ha avuto un senso enorme farlo lì», ricorda Martone, «era una sala da cento posti ma erano come centomila, è stato abbattuto un muro». Senza quello spettacolo e senza il film che ne è derivato, assicura il regista, «non ci sarebbe Nostalgia e non ci sarebbe neanche Qui rido io».

Ma in quest’ultimo film, come d’altronde in tutta la recente opera cinematografica di Martone, determinante è stato l’apporto creativo di Ippolita Di Majo, da cui nacque l’idea di fare un lungometraggio su Eduardo Scarpetta dopo che un progetto di serie tv su Eduardo De Filippo era sfumato. Per il cineasta, non a caso, «la sceneggiatura non è solo testo scritto», ma «una mappa», che tiene conto in anticipo dei luoghi dove si andrà a girare e che «durante le riprese si continua a modificare, non è mai finita». Nondimeno «è bene che sia precisa, dettagliata, maniacale», perché «più la mappa è dettagliata più sei libero nel viaggio».

«Il nostro  incontro», prosegue Martone parlando del sodalizio con Di Majo, «si fonda su uno sguardo comune su molte cose, che sono umane e artistiche». Della compagna e collaboratrice, il regista sottolinea in particolare il «rapporto tra il rigore di storica dell’arte che lei ha, uno sguardo a volte anche implacabile e severo, e dall’altro lato un calore che lei mette rispetto a una mia maggiore freddezza». E cita come esempio la scena di Nostalgia in cui si rievoca la gita del giovane protagonista sul Lungomare Domizio in motocicletta: l’idea di inserire nella sequenza anche l’amico-nemico Oreste, variazione rispetto al romanzo è proprio di Ippolita Di Majo.

Tra i molti nodi, la tavola rotonda ha toccato poi quello della poliedricità artistica di Martone, tra teatro di prosa, opera e cinema. «Sono parti diverse del cervello che si muovono, linguaggi diversi», specifica lui, «cantieri che comunicano» ma che sono e devono rimanere distinti. Questo muoversi tra diversi cantieri, prosegue, «ha a che fare con l’irrequietezza che mi porto dietro sin da giovanissimo, e che contrasta con l’immagine che mi porto dietro di ragazzo perbene, ormai ex ragazzo perbene. E poi ho sempre amato Pasolini, un grande poeta che a un certo punto si mette a fare il cinema e fa dei film grandi, liberi, e poi fa anche il teatro».

Naturalmente, poi, c’è il rapporto con la città di Napoli. Molti autori, d’altronde, hanno un luogo specifico nella loro poetica: «Il punto», riflette il regista, «è se questa specificità si fa o meno universale, se stai parlando a tutti». E Martone ha sovente messo quel mondo in relazione con altri mondi, come in Nostalgia e come in molti altri titoli, non ultimo Il giovane favoloso, biopic leopardiano su cui ci si è soffermati in chiusura dell’incontro. «Quello che mi interessava cinematograficamente», spiega Martone, «è che tutto il corpus delle opere di Leopardi è un continuo trarre spunto dagli eventi della sua vita, della sua singolarità. Questo innerva tutto il film».

Da qui, allora, la scelta, ancora una volta spiazzante, di evocare la poesia L’infinito inquadrando il volto di Elio Germano: «Il problema non era mettere in scena L’infinito ma capire il momento in cui quella poesia è nata. Io L’infinito sullo schermo non lo posso rappresentare, secondo me non lo può rappresentare nessuno, ma potevo mettere in scena lui».