#Pesaro59 – Una tavola rotonda e il libro di Pablo Marín sul cinema sperimentale argentino

Presentato all'evento presso il Centro Arti Visive Pescheria il volume "Una luz revelada", firmato dal regista argentino e giurato al Concorso Pesaro Nuovo Cinema. Con lui anche la cineasta Azucena Losana

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Alla 59ma edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema – Pesaro Film Festival, riflettori sull’Argentina, e in particolare sull’ondata più recente e sperimentale di una cinematografia che proprio alla manifestazione pesarese ha avuto una delle sue storiche vetrine mondiali. La mattinata del 22 giugno al Centro Arti Visive Pescheria ha visto infatti la tavola rotonda con i filmmmaker Pablo Marín (Denkbilder) e Azucena Losana (Cangallo y canning) tra i protagonisti quest’anno del focus Prospettiva Argentina (curato da Orazio Leogrande, anche lui presente al dibattito), che ha portato al festival dieci cortometraggi diversissimi ma accomunati da una tensione innovatrice nelle soluzioni estetiche e nelle modalità produttive non subordinate alle logiche di mercato.

L’incontro, con l’ulteriore partecipazione della giornalista Florencia Incarbone e della docente Florencia Lajer Baron, ha visto inoltre la presentazione del libro Una luz revelada. El cine experimental argentino, scritto dallo stesso Marín (anche giurato del Concorso Pesaro Nuovo Cinema) ed edito da Lucia Salas per La vida utíl.

Ed è un cinema della soggettività quello che emerge dal racconto di Marín e dall’intero evento pesarese. «Soggettività», afferma l’autore, che non vuol dire necessariamente «rompere con quello che è stato fatto in precedenza, ma è una forma di sincerità, non lineare ma “occulta”». Un approccio al linguaggio filmico personale anche nei canali di formazione e nel riutilizzo di materiali pregressi. Con tecniche come quella della sovrimpressione, attraverso cui il cineasta realizza una «accumulazione delle immagini che mi permette di non fare una scelta immediata: oggi filmo qualcosa, domani magari ci ritorno e così via, e vado perciò modellando l’immagine, che fino all’ultimo resta aperta», grazie anche all’impiego di quel «giocattolo filosofico» che è il Super-8.

Nel caso di Azucena Losana, un’ulteriore gamma di possibilità deriva dall’esperienza come sviluppatrice di pellicola in laboratorio: «È un po’ come essere un’ostetrica, una levatrice, aiuti a far nascere i film degli altri. Che erano anche amici, per cui ci tenevi particolarmente a fare un buon lavoro, è una grande responsabilità!». Sempre con una costante esposizione e disponibilità all’imprevisto: «Puoi fare degli errori, può venirti voglia di modificare qualcosa: per il film è un secondo campo da gioco». Cui si aggiunge quello delle modalità di proiezione, altro ambito d’interesse della regista, per il modo in cui esse incidono direttamente e materialmente sulla fruizione da parte degli spettatori, in un “corpo a corpo” costante con le macchine: «Ogni proiettore ha le sue manie, i suoi tic. Per me è come se fosse un’attività aerobica ad alto livello!».

Il volume di Marín, dal canto suo, è uno dei pochi studi dedicati sinora al cinema sperimentale argentino, di cui, sottolinea durante la tavola rotonda l’editrice Salas, mette in evidenza dinamiche virtuose come lo scambio proficuo tra diverse generazioni: «Le persone giovani possono imparare da quelle più anziane, cosa che non avviene in altre tipologie di cinema, dove c’è una forte separazione tra gli uni e gli altri».  L’excursus del libro, prosegue, poggia su un’approfondita fase di preparazione per ciascun capitolo (in un Paese dove «anche la conservazione del patrimono filmico è “autogestita”, non ci sono aiuti statali ma molte persone si dedicano a questo») e di uno stile di scrittura «in grado di far “vedere” questi film» creando al contempo «una fame di visione».

L’autore, a sua volta, specifica comunque di non aver voluto compiere un’analisi accademica, ma un discorso improntato a criteri di soggettività analoghi a quelli che emergono dalle ricerche artistiche al centro del racconto. «La domanda che mi pongo quando guardo qualcosa è sempre: “Come è fatto?”. E cominciano ad attivarsi dei percorsi nella mia mente che possono essere tra loro contraddittori. C’era anche l’entusiasmo di occuparmi qualcosa su cui non era stato scritto molto: e mi piaceva che fosse la mia lettura, la mia interpretazione».