#Pesaro61 – alla Mostra del Nuovo Cinema “Deriva”, opera prima di Danilo Monte

Abbiamo intervistato il regista del film, incentrato sulla crisi esistenziale di un artista che ha attraversato la disillusione successiva al trauma del G8 di Genova e lo spaesamento seguito al rapido avvento dell'era digitale.

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È la radiografia di una crisi, il lungometraggio d’esordio di Danilo Monte Deriva, presentato alla 61ma Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. Nella quotidianità sospesa e avvolta dalla solitudine del personaggio principale, il pittore con poco successo Mario (Mario D’Ambrosio, anche co-sceneggiatore e co-produttore insieme al regista e al montatore Alessandro Aniballi) c’è l’impasse di una generazione, cui appartengono sia il protagonista sia il cineasta: quella nata nella seconda metà degli anni ’70 e abbastanza giovane da sperare, nei ’90, in un cambiamento positivo di sistema per cui lottare.

Quel sogno, afferma Monte parlando a Ciak, «secondo me finisce a Genova 2001, con quella batosta». Ovvero, la scioccante, brutale repressione poliziesca (con l’assassinio di Carlo Giuliani e le atroci violenze alla scuola Diaz) del movimento allora sceso a contestare radicalmente la globalizzazione capitalista. «Lo slogan ai tempi del G8 di Genova era Un altro mondo è possibile. Ripeterlo ora sembra quasi strano».

Ma questa delusione storica, passata nel frattempo attraverso altri traumi, dall’11 settembre 2001 alle guerre contamporanee passando per le crisi economiche, la pandemia e l’aggravarsi del riscaldamento globale, «sicuramente è un processo che arriva da lontano». E c’entra più di qualcosa il fenomeno Internet, «che ha determinato un cambio di “era geologica”. Il mondo dall’essere sempre stato analogico diventa digitale». Innescando «un cambio antropologico che la mia generazione, ma anche qualcuna successiva, non può avere gli strumenti per assimilare. Il film parla di questo, di cosa vuol dire a livello esistenziale vivere nel ricordo di un mondo che vibrava, trovandoti poi a vivere un mondo dove invece tutto è emulazione, dove c’è un senso di vuoto, che è la condizione del protagonista».

Le giornate di Mario, infatti, tra il peso di un amore finito, un figlio piccolo col quale non riesce a comunicare, i tentativi vani di emergere nello stagno dell’arte contemporanea, sguazzando nei fiumi di parole vane di critici e sedicenti esperti, sono riempite anche, e soprattutto, dalle reminiscenze di decenni prima, restituite attraverso le immagini d’archivio (la cui soluzione di continuità col presente è sottolineata emblematicamente dal diverso formato). «La vitalità di quei materiali è incredibile: un mondo fatto di collettività, entusiasmo, anche di sofferenza perché non era facile cercare di venir fuori da alcune condizioni, però era un mondo vivo».

Sono i frammenti “vibranti” di un’epoca perduta, in contrasto con quelli dei reel, i video brevissimi sui social che Mario guarda uno dietro l’altro con un gesto «ossessivo, ripetitivo, nella totale solitudine» per lui, e tipico della normalità di molti di noi. «È come se l’età del protagonista coincidesse con quella della “Super-persona” che è tutto il genere umano nell’attuale momento decadente, dove ci si può interrogare soltanto riferendoci al passato. Quasi come se la nostalgia fosse una caratteristica di questi, dato lo scollamento tra ciò che era e ciò che è».

«Essendo poi la mia stessa età, si tratta della mia prospettiva», precisa Monte. E però «chi è già nato con lo Smartphone, questa mancanza di vibrazione la vive, e secondo me qui c’è il nichilismo di cui si parla rispetto alle nuove generazioni, anche se non è consapevole». Ma è possibile, malgrado tutto, rimettere insieme i frammenti di questo oggi spezzato, per tornare a vedere un domani che valga la pena di tornare a concepire, a costruire? «Credo che chi, come noi, sta vivendo questo cambio antropologico, non riesca a intravedere cosa potrà essere».

Tocca primariamente, forse, alle generazioni successive. E se nel film il figlio di Mario (Daniele Ciampi), chiuso ermeticamente nel suo loop videoludico, non sembra infondere troppa fiducia, il regista invita comunque a non dare giudizi affrettati: «Io vedo che i ragazzi comunicano in un modo diverso, e non è detto che sia per forza peggiore, si tratta di cambiare i codici. Io però non riesco più a farlo, sono a cavallo di un mutamento troppo grande per me. E mi ritrovo spaesato, non riesco più a stare dietro ai mutamenti repentini che ci sono, il film è il racconto di questo spaesamento». D’altronde il titolo Deriva ha un duplice significato: «È sia una barca senza direzione, sia un pezzo della barca che le consente di non essere troppo soggetta al vento: quindi è ambivalente, c’è un tentativo di spinta vitale per affrontare il futuro».