Upon Entry – L’arrivo. Presentato a Roma il thriller sociale in uscita a febbraio

Abbiamo intervistato i registi (Alejandro Rojas e Juan Sebastián Vásquez) e la protagonista (Bruna Cusí) del film Premio del Pubblico al Festival del cinema spagnolo e iberoamericano e nelle sale per EXIT Media.

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È «un film politico», e nella fattispecie un «thriller sociale», Upon Entry – L’arrivo, secondo gli stessi registi Alejandro Rojas e Juan Sebastián Vásquez, al loro primo lungometraggio, presentato in anteprima al 16° Festival del cinema spagnolo e iberoamericano di Roma (dove si è aggiudicato il Premio del Pubblico) e nelle nostre sale dal 1° febbraio per EXIT Media. La storia è quella della coppia formata Elena (Bruna Cusí, Goya per Estate 1993) e Diego (Alberto Ammann, stesso riconoscimento con Cella 211), lui venezuelano, lei catalana, entrambi in partenza per gli Stati Uniti d’America, dove progettano di stabilirsi grazie a una green card vinta dalla donna alla lotteria.

Ma appena i due atterrano all’aeroporto di New York, il controllo dei passaporti dà inizio a un vero e proprio incubo kafkiano, dove i protagonisti, trattenuti con poche spiegazioni e impossibilitati a comunicare con l’esterno, vengono sottoposti ad interrogatori sempre più pressanti e invasivi da due funzionari (Christian Molina e Laura Gómez) che, in base alle risposte, potranno decidere se ammetterli, respingerli o addirittura arrestarli.

Alla base della trama ci sono le esperienze autobiografiche dei due cineasti, venezuelani emigrati: «Per documentarci siamo partiti da vicende accadute anche a gente molto vicina a noi, è stata una ricerca sin troppo facile», spiega Vásquez. «Volevamo parlare del fatto che se tu hai un passaporto di una certa nazionalità o di un’altra sei trattato in maniera differente, e mostrare questa dinamica in un luogo chiuso, dove di fronte a te c’è un’autorità, qualcuno che ha potere».

«La sfida è stata nel raccontare questa storia sempre dentro quel luogo, tenere lo spazio fra quelle quattro mura come la bussola del film», aggiunge Rojas, che col collega ha fatto tesoro soprattutto de La parola ai giurati (1957) di Sidney Lumet come riferimento cinematografico. La critica di Upon Entry, sottolinea Vásquez, si può estendere dagli USA al complesso delle politiche migratorie diffuse nei Paesi più avvantaggiati (spesso a scapito di altre popolazioni ed economie), denunciando «un sistema che vuole sfruttare anche indirettamente le risorse di un luogo senza però accettare i suoi cittadini».

E se il film è ambientato ai tempi dell’amministrazione di Donald Trump, Vásquez fa notare che «gli Stati Uniti hanno sempre avuto una politica molto restrittiva sull’immigrazione. Il problema di figure, chiaramente detestabili, come Trump, è che fanno vedere gli altri politici in chiave meno negativa, normalizzando le loro azioni. Invece l’amministrazione Biden sta proseguendo una politica molto dura sui migranti, ma anche su altre questioni, vedi ad esempio quello che sta accadendo a Gaza. E anche durante l’amministrazione Obama, prima di Trump, c’erano misure molto restrittive: ma poi arriva qualcuno peggiore e l’immagine di questi politici viene “ripulita”».

Alla riuscita del film, data anche l’unità quasi aristotelica di tempo, luogo e azione, contribuiscono le intense prove degli interpreti: «Per me, come attrice, questo progetto è stato un dono», afferma Bruna Cusí, «perché è un film fatto di piani molto ravvicinati, e per questo bisognava dare molta importanza ai piccoli gesti, agli sguardi». Per preparare questo ruolo, prosegue, «da un lato ho fatto per mesi lezioni di danza, perché Elena è una ballerina. E, parallelamente, è un personaggio la cui visione, come cittadina europea, viene progressivamente smontata, passando dal ritenersi una privilegiata al subire l’umiliazione. Quindi il mio è un percorso verso la vulnerabilità».