Bif&st 2015: tutti a lezione da Nanni Moretti

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28 marzo. È il giorno tanto atteso: Nanni Moretti arriva al Bif&st 2015. Ad aspettarlo una folla di appassionati, addetti ai lavori e giornalisti che ha riempito il teatro Petruzzelli in ogni ordine di posto. Un “tutto esaurito” che ha lasciato oltre cinquecento persone deluse all’esterno dell’edificio, impossibilitate ad accedervi per assistere alla proiezione alle ore 9 di Caro Diario e alla successiva lezione di cinema.

Una master class che è iniziata in modo diverso da tutte le altre. Poco dopo i titoli di coda del film che nel 1994 a Cannes ha ricevuto il premio per la miglior regia, Moretti è salito sul palco da solo, davanti a un leggio. E ha iniziato  a leggere, con il suo inconfondibile stile, il “diario di Caro Diario”, dove aveva annotato idee, sentimenti, ansie, problemi e soluzioni nel periodo di gestazione, lavorazione e uscita del film. Note brevi, acute, taglienti, ironiche, sofferte, come quando evoca il saluto alla salma di Federico Fellini a Cinecittà pochi giorni prima dell’uscita del film in sala. Pensieri e parole che hanno dato al pubblico uno spaccato fedele del “dentro la mente” del regista, al tempo quarantenne e con già sei lungometraggi alle spalle.

È poi arrivato il momento della lezione-conversazione vera e propria, coordinata da Jean Gili, storico del cinema, critico cinematografico e profondo conoscitore dell’autore italiano.

Nanni Moretti, la master class al Bif&st 2015
Nanni Moretti, la master class al Bif&st 2015

Perché hai scelto Caro diario e di fare questa introduzione?

Il film l’ha scelto il festival, non io. E con la lettura del diario volevo far vedere al pubblico cosa succede durante la lavorazione di un film. Ha senso farlo dopo la proiezione perché penso che a uno che ha appena visto il film possa far piacere ascoltare le impressioni avute dal regista mentre lo stava girando.
Alcune cose del film sono avvenute un po’ per caso, come nell’episodio Isole la sequenza di Anna con il mambo di Silvana Mangano, che era paradossalmente una riserva, mentre io avevo scelto un musicarello con Caterina Caselli di cui non ci hanno concesso i diritti.

Caro diario è nato per caso, non mi sono reso conto che stavo girando il mio nuovo film. Io andavo in giro con la troupe per Roma, c’era per caso Jennifer Beals di Flashdance e le chiesi di fare un’apparizione nel mio cortometraggio: io pensavo di fare un corto di 15 minuti, una cosa così, fatta in totale leggerezza che mi ricordava i tempi del Super 8 quando facevo i filmini con gli amici. Una cosa fatta con irresponsabilità e incoscienza in senso positivo. Ho iniziato a girare il film senza accorgermene. Il pubblico lo vede in sala strutturato, invece è frutto anche di casualità.

Il fatto di arrivare impreparato durante le riprese non mi è capitato sempre. Alcuni film, come La messa è finita e Habemus papam, per esempio, avevano una sceneggiatura precisa. Ma Palombella rossa, Caro diario e Aprile ho iniziato a girarli senza una scrittura, ma per frammenti, sperando di colmare durante le riprese i buchi narrativi. È un modo di lavorare più interessante ma più rischioso. In altri film avevo bisogno di più sicurezza e di una sceneggiatura precisa.

Fellini disse in un’intervista che gli faceva piacere sapere che nel cinema italiano esisteva un giovane Savonarola, mentre lui si definiva un papa corrotto

Sono sicurissimo che Fellini non abbia mai visto un mio film, non gli interessavano i film degli altri. Era totale il suo disinteresse per i film altrui e io non l’ho mai invitato a vedere un mio film. La sua dimensione di spettatore cinematografico era inesistente. Non gli interessava. La sua dimensione di lettore di libri invece era nota. Forse parlava di me come personaggio, non certo come regista.

Caro diario è stato girato in uno stato di grazia. L’impressione è di totale libertà 

Caro diario - In Vespa
Caro diario – In Vespa

È come se una serie di casi e di fortune si siano messi uno accanto all’altro, un po’ evocati da me, e piano piano sono riuscito a comporre le tessere del mosaico.
In origine avevo scritto 4 capitoli, ma uno non c’entrava niente, aveva come protagonista Silvio Orlando. Lui avrebbe interpretato un regista senza alcun talento che attraversava tutti i generi sbagliandoli tutti, ma pian piano, con telefonate, minacce e lusinghe, convinceva tutti i critici tranne uno, e questo diventava la sua ossessione. Ma questo episodio non c’entrava nulla col resto e non l’ho girato. Come ho detto, il film è nato per caso, prima volevo fosse un corto, ed è stato girato i due estati successive: nella seconda alcune scene sono venute meglio della prima volta.

Caro diario e Aprile non hanno avuto una separazione netta tra scrittura, preparazione, riprese e montaggio. Queste fasi si sono intrecciate tra loro. È possibile fare un film così quando hai un rapporto non marziale o ufficiale con un produttore o, come nel mio caso,  quando hai una casa di produzione.

Per quanto riguarda il capitolo della malattia, lì ho deciso di raccontare quella vicenda quando ho capito il tono con cui dovevo trattarla: con semplicità e ironia, seguendo il consiglio del mio vecchio allenatore di pallanuoto, che urlava «Nun t’inventà gnente! ». Per il capitolo dei medici, infatti, non ho inventato niente. Ho solo tagliato nelle inquadrature i nomi e i numeri di telefono dei medici. Era importante raccontare senza autocompiacimento, senza celebrazione della malattia e senza sadismo nei confronti del pubblico, ma con molta secchezza.

Naturalmente i tre capitoli di Caro diario non sono omogeni tra loro, sono temi e modi narrativi diversi. Il film non nasconde, anzi esibisce la sua disomogeneità.

Dopo In Vespa ho guardato Roma in modo diverso. Poi c’è Isole e Medici, con la conclusione che bisogna bere acqua la mattina. Alla fine c’è il tuo sguardo in macchina: che significato ha?

Ci penso! (ride) A proposito di Isole, voglio dire che questa rivalità nella realtà non è tanto dei residenti ma dei villeggianti: chi va a Lipari non capisce la scelta estrema di Alicudi e viceversa. Questa gelosia della propria identità appartiene a chi le sceglie come meta di vacanza. Lì faccio fare al personaggio di Carpentieri nel giro di pochi giorni un percorso umano che di solito le persone compiono in anni: dal rifiuto totale della televisione all’accettazione entusiasta di tutto ciò che ti propone.

Cario diario - Isole
Cario diario – Isole

Nel finale del capitolo Isole,  Gerardo scappa da Alicudi, ma c’era un altro finale in cui lui approdava a Vulcano perché li aveva casa Mike Bongiorno, che era diventato un faro per Gerardo (in sala viene proiettato il finale alternativo, ndr).
Il film non è un cruciverba con una sola soluzione. Senza esagerare, il cinema è un mezzo espressivo che si presta a più letture e a più interpretazioni. Vi sarà capitato di rivedere un film a distanza di tempo e avrete visto un film diverso.

E per lo sguardo in macchina… In quel momento mi veniva così, anche perché tutti i ciak la prima volta vennero sfocati e abbiamo dovuto rigirare il finale.

Al termine de La messa è finita, quando guardi le persone ballare hai uno strano sorriso e io pensavo di vedere la felicità assoluta

Nel finale ci sono due cose insieme, una sconfitta e una vittoria. Giulio parte per la Terra del Fuoco, ma non è riuscito li nella sua città e nella sua parrocchia a fare tanto per gli altri. È insieme un grande passo avanti e un passo indietro.

Lo sguardo lascia aperta la conclusione

Sì, con un’immagine forte. Naturalmente l’ultima immagine di un film è molto importante per il pubblico, perché porta con sé proprio quell’ultimo fotogramma.

Arriviamo a La stanza del figlio. Che differenza c’è nel passare da un film libero a uno così strutturato?

La stanza del figlio
La stanza del figlio

Con Palombella rossa, Caro diario e La cosa ho voluto raccontare storie in modo più libero, e la mia esperienza di spettatore ha influenzato quella di regista. Verso la fine degli Anni ’80, dopo un periodo in cui la sceneggiatura era stata sottovalutata dai registi “autoriali” e commerciali, c’è stato un ritorno alla scrittura, ma in senso accademico, un compitino ben fatto per raccontare storie fatte meglio 20-30 anni prima. Un ritorno all’accademismo, alle regole da osservare in maniera pignola. Allora, per reazione, con Palombella rossa ho voluto raccontare in modo narrativamente più libero la crisi di un dirigente del Pci, sia famigliare sia politica. Non mi andava di replicare film già fatti tante volte in passato, e ho pensato di ambientare questa storia in una piscina durante un partita di pallanuoto che sembra non finire mai. Come spettatore vedevo un ritorno a regole osservate senza libertà e allora mi sono preso la licenza di raccontare lo smarrimento della sinistra e dell’Italia con un’amnesia, un nodo cruciale del nostro Paese e della sinistra italiana di fine Anni ’80. Palombella rossa è un film d’invenzione, mentre La cosa è un documentario di un’ora dentro la crisi del Pci nel 1989, quando dopo il crollo del muro di Berlino Occhetto decise di cambiare il nome al partito. Iniziai ad andare nelle sezioni del partito e a filmare i dibattiti su chi era e non era d’accordo. Ho iniziato a girare per curiosità personale. Dubito un po’ di chi gira documentari con già in testa una tesi da dimostrare. Semplicità anche lì,  «Nun t’inventà gnente! ». Non volevo filmare la mia presenza, ma facce di persone che parlavano, la loro paura, gioia, angoscia, sollievo, speranza, panico.  Un’autocoscienza in pubblico cui non erano interessati solo quelli del Pci, ma l’intera società italiana.

I film successivi hanno tutti la sceneggiatura 

Sono di nuovo approdato alla sceneggiatura scritta con altre persone, che è la cosa che preferisco fare e che è un’esperienza non solo professionale ma anche umana. Da La stanza del figlio ho sempre scritto con altre due persone. E ora mi sono stabilizzato con questa formula. È più piacevole che scrivere da solo, si fa una traversata. Ci sono momenti dispersivi, anche noia, chiacchiere inutili, ma poi a un certo punto arriva l’idea ed è piacevole. Con gli anni, diventando più esigente, è il momento più difficile del film, sebbene non il più faticoso, quello sono le riprese. Col montaggio non c’è più l’ansia, c’è meno programmazione stabilita e poi lavori con una persona, non con decine di persone che attendono una tua idea quando magari non ce l’hai. Il periodo della scrittura è diventato più difficile, ma anche il più piacevole.

Nanni Moretti riceve il premio Fipresci 90 da Felice Laudadio, direttore artistico del Bif&st
Nanni Moretti riceve il premio Fipresci 90 da Felice Laudadio, direttore artistico del Bif&st

Chi fa lo scrittore può scrivere tutti i giorni, idem un musicista o un pittore. Per un regista a volte passano cinque anni tra un film e l’altro. Come affronti i momenti d’ozio e come riempi questo spazio in attesa di un altro film?

Oltre al regista, in passato e in parte ora ho anche incarnato altre diverse figure: produttore, distributore, esercente cinematografico, direttore di festival. L’ho fatto non per costrizione, ma per il piacere di lavorare con persone che stimo. Ho attraversato vari mestieri non per dovere ma per piacere, perché mi sembrava così di completare il mio lavoro di regista. Tu hai citato i tanti anni tra due film, ma io ho fatto altre cose, ho fatto anche l’attore. Diciamo che è un modo di ricaricarmi. C’è anche chi per sua fortuna ha un rapporto più leggero col suo lavoro. Fare un film è un grande investimento psicologico ed emotivo. Per cui dopo bisogna che si creino nuovi sentimenti per il mondo, gli altri e se stessi che piano piano diventano idee, appunti, soggetti da fissare in una sceneggiatura. Per alcuni registi non è automatico. Per me deve passare un po’ di tempo per ricaricare le armi per un nuovo progetto.

Negli ultimi film (di Mia madre non parliamo) racconti una storia privata e una politica

Il caimano è tante cose, una separazione familiare, una storia di grande amore per il cinema, e anche del film che una giovane regista, Jasmine Trinca, vorrebbe fare. Vari temi che s’intrecciano, come tante volte nei miei film.

In Habemus Papam come ti è venuta l’idea profetica delle dimissioni del papa? Un mistero!

Lasciamolo!

 

Sergio Lorizio