FRANCESCO ROSI: IL SUO CINEMA IN 10 DICHIARAZIONI

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Sembra quasi una coincidenza che uno dei suoi film più belli e importanti, Le mani sulla città, sia stato da pochi mesi distribuito in Dvd per la prima volta (anche se era già uscito in edicola col Corriere della Sera). Un giusto riconoscimento a Francesco Rosi, il regista italiano che più di ogni altro ha saputo raccontare i mali e gli intrallazzi dell’Italia dal dopoguerra sino agli Anni ’90 (ma fu legato sin dall’inizio anche al teatro). Un’Italia che oggi il cinema sembra non riuscire più a decifrare. Lui stesso, nel bel libro scritto a quattro mani con Giuseppe Tornatore, Io lo chiamo cinematografo dichiarava infatti che «La realtà si degrada così in fretta che il suo passo è troppo più frettoloso di quello del cinema. Rischierei di raccontare un paese che già non c’è più ». A parlare per Rosi restano i suoi film, alcuni folgoranti, oltre a Le mani sulla città (1963), il suo primo lavoro La sfida (1958), Salvatore Giuliano (1962), Uomini contro (1970), tutti reperibili in Dvd, e poi Il caso Mattei (1973), Cadaveri eccellenti (1976), Cristo si è fermato a Eboli (1979). E alcune sue dichiarazioni nelle interviste, aiutano a comprendere il suo rapporto con lo spettacolo:

«Quello che ho appreso ai miei inizi lo devo a Ettore Giannini (per il teatro, ndr), così come per il cinema a Visconti. Con Giannini mi improvvisavo in tutto (…) Durante la guerra a teatro c’era bisogno di un siparietto e lo affidarono a me (…). Truccato da negro cantavo Nobody Knows alla Al Jolson, senza capire quello che facevo ».

«Avevo conosciuto Visconti a qualche prima a teatro. Telefonai a Barbaro, che insegnava al Centro Sperimentale, e gli dissi che avrei voluto iscrivermi. Barbaro mi spiegò cosa fare: ‘Preparati un testo per l’ammissione’ (…) E io scelsi I Malavoglia. Stranissima coincidenza perché Visconti stava preparando proprio La terra trema ».

Salvatore Giuliano
Salvatore Giuliano

«Visconti improvvisava continuamente il testo (per La terra trema) lavorandolo con questi attori improvvisati (…). Questo metodo mi ha molto formato in quello che è stato poi il mio modo di fare cinema, per esempio Salvatore Giuliano. La serata in cui La terra trema fu proiettato a Venezia è indimenticabile. Io la vissi nella cabina di proiezione dove ero stato confinato da Visconti con il compito di non abbandonarla neppure per un attimo, e di controllare il livello del suono e se l’operatore metteva la bobina giusta ».

«La critica si espresse con riserva (…). Quella di sinistra parlò di “formalismo degli stracci”. Il fatto all’epoca non sorprendeva. Avveniva regolarmente per Rossellini, De Sica e per quei loro film che, dopo essere stati accolti con il sopracciglio alzato e il gelo più assoluto in Italia, entusiasmavano l’estero ».

«Non ho mai cercato di fare violenza sugli attori. L’ho capito alla scuola di Giannini e Visconti (…). Il mestiere del regista consiste proprio nella possibilità di capire quando frenare e quando lasciare all’attore la briglia sciolta. Ma prima di tutto devi amare gli attori ».

«Quando faccio un film, mi documento molto, ma a un certo punto metto tutto da parte (…) Quando finisco il film è allora che mi viene voglia di cominciare a studiare tranquillamente tutti i materiali. (…) Attraverso il film do il mio rapporto personale con quella realtà, la mia interpretazione, la mia ottica, quindi non posso chiudere il film nei ristretti limiti di una ricostruzione ».

«All’epoca di Salvatore Giuliano furono in molti a parlare di documentario, ma non c’è film più costruito di Salvatore Giuliano, un film più lontano dal documentario! E a Venezia (…) fu rifiutato proprio perché lo considerarono troppo vicino a un documentario! ».

«I Tre fratelli (film del 1981 con Michele Placido, Vittorio Mezzogiorno e Philippe Noiret) sono tre parti di me stesso (…). Faccio mio il discorso del magistrato che dice che questo stato va difeso anche se non è il migliore possibile, il discorso dell’operario e le sue difficoltà di immigrato e la sua indicazione che la lotta è necessaria (…) e il discorso dell’educatore, che è un utopista un po’ ingenuo che vorrebbe spazzare via dal mondo quello che c’è di marcio e di corrotto ».

«Non siamo riusciti a capire fino a che punto il prodotto del nostro lavoro intellettuale potesse fruttare negli anni futuri attraverso la televisione. A noi e ai nostri produttori è sfuggito che i film non si fanno solo per farli uscire, ma si fanno anche per farli durare nel tempo ».

«A mio parere, la nostra generazione ha talmente denunciato, che la denuncia può addirittura assumere il valore di un alibi dietro cui nascondersi.(…) E un uomo che fa cinema deve avere la consapevolezza che un film è comunque una testimonianza del momento storico in cui viene realizzato (…). Proprio per questo chi esprime cultura deve sforzarsi di essere chiaro il più possibile anche rischiando di semplificare un certo tipo di discorso che invece – si sa – è spaventosamente complicato ».

(dichiarazioni tratte dai libri L’avventurosa storia del cinema italiano di Goffredo Fofi e Franca Faldini)

Valerio Guslandi