IL FILM: GET ON UP

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Dentro un improbabile chalet fatto di montagne di cartapesta, esplodono le note di quattro giovanotti dal pullover rosso fuoco che si dimenano a tempo di shimmy: sono un’inaspettata pattuglia dalla pelle nera, James Brown & The Famous Flame, e cantano per un pubblico bianco la loro I Got You (I Feel Good). È la ricreazione di un oscuro B-movie, del 1965, Ski Party, girato tra le nevi di Sun Valley, nell’Idaho. Solo che ora siamo ai giorni nostri, in uno Studio di Jackson, in Mississippi, clima tropicale e 28 gradi. Ciak ha visitato in esclusiva il set di Get On Up, l’atteso biopic del grande James Brown che vedremo in Italia il 6 novembre.

IL PADRINO DEL SOUL La storia di Get On Up va da quando mamma Susie abbandonò Brown a sei anni e lui andò a vivere con zia Honey, tenutaria di un bordello, fino al difficile Comeback Tour a 60 anni, dopo l’uscita di prigione. Non solo mancano i suoi ultimi tredici anni (morì nella notte di Natale del 2006) ma la costruzione non lineare né cronologica lo rendono differente dal format «dalla culla alla bara », come ci spiega Taylor: «E non è nemmeno il classico biopic musicale, un genere che detesto. L’ultimo buon esempio credo fu La ragazza di Nashville, sulla cantante country Loretta Lynn, con cui Sissy Spacek si aggiudicò l’Oscar nel 1981. Quello che mi intrigava qui non non era tanto la success story di Brown, ma l’impossibilità di sentirsi arrivato e il terrore di perdere tutto. Perciò l’ossessione di reinventarsi continuamente e il soprannome di Hardest Working Man in Show Business ».

BROWN & JAGGER Quante volte capita che il coproduttore del film sia anche uno dei personaggi? Ma quando c’è di mezzo Mick Jagger tutto può accadere. E in Get On Up lo interpreta, Nick Eversman. «Con James Brown ci siamo incontrati un sacco di volte » spiega il leader dei Rolling Stones «soprattutto nei camerini e nel backstage. La prima volta fu nel 1964, per il film concerto The T.A.M.I. Show (c’erano anche i Beach Boys e le Supremes, nda). Ci toccò esibirci dopo di lui e non c’era modo di uguagliarne l’energia. Voce a parte, aveva una maniera unica di muoversi e interagire con il pubblico, un dinamismo e un tempismo realmente carismatici ». Jagger, che si era assicurato i suoi diritti musicali per un documentario, si è unito invece al produttore Brian Grazer (Oscar per A Beautiful Mind) che stava lavorando a un film di fiction da oltre quindici anni con la collaborazione dello stesso Brown (Spike Lee il regista, Wesley Snipes o  Eddie Murphy, l’interprete).

FRATELLO DI BLUES Nel film c’è anche Dan Aykroyd, che interpreta Ben Bart, il manager di Brown. L’attore ha usato ricordi personali per calarsi nel ruolo: «Vidi Brown all’ Esquire Show Bar di Montreal nel 1968 e al Le Coq d’Or di Toronto nei primi Settanta. Ma lo conobbi solo dopo aver scritto Blues Brothers con John Landis, quando concordammo che era l’unico che poteva interpretare il reverendo Cleophus James. Diventammo così amici, e lo scritturai in altri due film, Doctor Detroit e Blues Brothers 2000, e lui mi aiutò a inaugurare cinque sedi della mia catena House of Blues ».

IL PROTAGONISTA  La cosa più difficile per il protagonista, Chadwick Boseman – che era anche il campione di baseball Jackie Robinson nel film 42 – non è stato cantare, ma ballare. «Io sono alto 1,83 e lui era 1,68. Non è un semplice dettaglio estetico » riflette l’attore «Un ballerino alto non potrà mai essere veloce come uno più basso. E poi ho avuto solo due mesi e mezzo per imparare i suoi incredibili passi di danza. Lui l’intera vita ».  Alla somiglianza hanno contribuito make up, protesi facciali e una gran quantità di parrucche. «Ma non è mai stata una imitazione, bensì un’interpretazione per coglierne spirito ed essenza ». Il suo concerto preferito? Quello del 5 aprile 1968 trasmesso in diretta tv da Boston la notte dopo l’uccisione di Martin Luther King, per la sua importanza politica: evitò gravi incidenti in tutto il Paese. «Sono rimasto sempre nel personaggio, anche nelle pause, non per una questione di Metodo, quanto per non perdere quella musicalità che informava anche il suo modo di parlare e di muoversi. Era la leggerezza assoluta: come camminasse sull’acqua ». 

PAINT IT BLACK Inevitabile la polemica sul fatto che non solo i produttori, ma anche il regista di un film sull’icona che ha posto le fondamenta del funk e dell’hip-hop, siano bianchi, come ha protestato il regista John Singleton. Taylor non si nasconde: «Hanno detto lo stesso di The Help. Prima vedete il film, poi ne riparliamo. Quando cercavamo i soldi e avevamo difficoltà proprio perché è la storia di un afroamericano, un vecchio raccoglitore di cotone mi disse: Ma che diavolo dici? James Brown non era nero. Era James Brown. Ed è esattamente come l’ho sempre  visto io ».  

Marco Giovannini