“IL LIBRO DELLA GIUNGLA”: LA RECENSIONE

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4 Stelle (4,0 su 5)

The Jungle Book, Usa, 2016 Regia Jon Favreau Voci italiane Toni Servillo, Neri Marcoré, Luca Tesei, Violante Placido, Giovanna Mezzogiorno Distribuzione Walt Disney Pictures Durata 1h e 46′

In sala dal 14 aprile

La storia è nota e deriva dalla versione animata disneyana del 1967, piuttosto che dai due Libri della giungla scritti da Rudyard Kipling tra il 1894 e il 1895: Mowgli, un piccolo orfano abbandonato nella giungla indiana, viene trovato da una nobile pantera nera e condotto al branco dei lupi che lo alleverà, ma quando riappare la ferocissima tigre Shere Khan intenzionata a ucciderlo, è tempo per il “cucciolo d’uomo” di tornare al villaggio degli uomini. Prima della resa finale dei conti con la tigre, Mowgli ha modo di conoscere altri animali, che renderanno memorabile la sua avventura.

Sono ormai alcuni anni che la Disney ha introdotto nelle sue strategie produttive la realizzazione di classici animati in versione live-action, seguendo due linee ben differenziate, la prima articolando variazioni/riscritture sostanziali del cartoon (es. Maleficent, Alice in Wonderland), la seconda cercando di mantenere per quanto possibile una maggiore fedeltà allo stesso (es. La carica dei 101, Cenerentola).  Entrambe si sono dimostrate operazioni di enorme successo, anche se la seconda linea offre garanzie di riuscita con rischi imprenditoriali minori e non per questo si presenta meno interessante sia da un punto di vista concettuale, che di esito artistico.

Come già era accaduto per Cenerentola (2015), le variazioni che si rendono indispensabili per una versione “live action” e che gli sceneggiatori apportano obbediscono a logiche piuttosto condivisibili, giocando a volte sulla citazione, musicale e non, arricchendo la personalità dei personaggi in maniera delicata, ma al tempo stesso non alterandone il carisma fiabesco e rinforzando le loro motivazioni e i loro atteggiamenti. Significativa in tal senso in questa versione “live action” di Il libro della giungla  la scelta di articolare differentemente il finale senza per questo tradire il pathos che lo stesso ha nel cartone animato, ma amplificandone la resa spettacolare e il “messaggio”.  Un ulteriore esempio di tale valida impostazione si trova nella scena in cui, attraverso l’ipnosi del serpente Kaa, Mowgli come in un flashback rivive il trauma che lo ha reso orfano e “ricorda” il perché Shere Khan nutre verso di lui tanto odio.

Il regista Favreau (già responsabile dei primi due film su Iron Man) è abilissimo nell’orchestrare su una “interzona” digitale (tutto il film è generato in CGI, dai paesaggi agli animali) un’opera che parla di una “maturazione” tutt’altro che sintetica. Non si può prescindere dal citare il supervisore agli effetti visivi Rob Legato e i tecnici della WETA (Il signore degli anelli) che hanno dato origine al novanta per cento del film. Sono lontani i tempi in cui le scimmie digitali di Jumanji (1995) ci sembravano, pur nella loro evidente rigidità computerizzata, già un risultato da applaudire. Qui la sensazione è diversa (si raccomanda la visione in 3D): è il cinema stesso che si sostituisce alla vita.