INTERVISTA A DAVIDE FERRARIO: TRA CINEMA E CRITICA

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Ciak ha intervistato il regista Davide Ferrario che ci ha parlato dei suoi prossimi progetti tra cinema e workshop, di cosa significhi fare critica oggi e dei problemi legati alla produzione e fruizione cinematografica.

Davide FerrarioRegista, sceneggiatore, scrittore, produttore e critico, Davide Ferrario, con quasi trent’anni di carriera alla spalle continua a spaziare tra vari generi e ruoli del nostro cinema, sempre con un piglio innovativo e curioso, raccontandoci, sotto forma di documentario, pagine importanti della nostra storia passata (Piazza Garibaldi) e tristemente recente (Le Strade di Genova) e trovando nella commedia malinconica o amara (Tutti giù per terra, Tutta colpa di Giuda, Dopo Mezzanotte) la chiave a lui più congeniale per portare alla luce le sue storie. Sperimentatore, Ferrario, ha contribuito ha ridisegnare il profilo del nostro cinema giocando sempre tra fiction e documentario, costruendo una poetica registica forte e coerente che, nonostante l’eterogeneità dei suoi lavori, mantiene una traccia riconoscibile, pellicola dopo pellicola. Attento ai dettagli, dal ruolo riservato alle musiche fino alla natura del montaggio, Ferrario ha invece una predisposizione “liberatoria” alla sceneggiatura, vissuta come momento partecipativo tra lui e gli interpreti, professionisti e non, con i quali lavora, preferendo giocare sull’improvvisazione e il contributo piuttosto che sulla rigidità.

Abbiamo intervistato il regista bergamasco ma piemontese di adozione per farci raccontare com’è nata l’idea del suo nuovo film, cosa pensa dello stato attuale del cinema italiano e della critica cinematografica e di cosa significhi, oggi, preservare ed esaltare i luoghi dell’arte attraverso lo sguardo di un obiettivo. Sfida quest’ultima che a breve affronterà insieme ad un gruppo di aspiranti registi nel workshop di regia realizzato dal Milano Film Network e Invideo.

Ferrario, a metà settembre sarà protagonista del workshop di regia “Raccontare gli spazi”, organizzato dal Milano Film Network e Invideo, il cui obiettivo è quello di descrivere i luoghi dell’Arte di Milano attraverso un film a episodi. Cosa l’ha spinta a prendere parte al progetto?

Dopo mezzanotte
Dopo mezzanotte

Nulla mi ha spinto in realtà. É stato Invideo che mi ha chiesto di prendere parte a questo progetto sulla base del fatto che sto finendo di montare un film che ha per protagonista un altro museo, L’Accademia Carrara di Bergamo. Ho realizzato questo film a partire dalla narrazione della riapertura dell’Accademia, avvenuta il 23 aprile, cercando di fare una riflessione sull’arte, sull’atto del vedere. Un tema che mi interessa da sempre. In base a questo, cercavo di ragionare su cosa significasse filmare l’arte. Mi hanno proposto di applicare questa mia passione, testimoniata anche da un recente lavoro esposto alla Biennale e realizzato con Umberto Eco, al workshop, nato anche dall’idea di Invideo di puntare lo sguardo sui luoghi della cultura milanese coinvolgendo dei giovani, cosa che a me piace molto, non tanto per insegnargli quanto per comunicargli qualcosa. Diciamo che si è trattato di una combinazione di eventi.

Cosa può raccontarci quindi del suo nuovo film? Quando è nato questo suo interesse e come lo ha sviluppato registicamente?

Sono bergamasco di nascita, prima di diventare torinese negli ultimi vent’anni, e sono cresciuto lì. L’Accademia di Carrara è un gioiello poco conosciuto, come tante altre bellezze bergamasche del resto. Non è un museo molto grande ma di straordinario valore. C’è dentro molto, da Mantegna a Botticelli fino a Raffaello. Una collezione fantastica costruita nel ‘700 e nell’800 da collezionisti privati che poi l’hanno donata alla città. Il museo è stato chiuso a lungo, dal 2008, con un iter tipicamente italiano. In due anni si sarebbe dovuto riaprire e invece ce ne sono voluti sette, diventando una storia in se stessa. Ho seguito l’ultimo anno di riapertura del museo per raccontare da una parte una narrativa dei lavori che si celano dietro la costruzione di un percorso museale – del perchè e come un quadro si sussegue all’altro – e dall’altra per costruire un ragionamento più generale su noi e l’immagine, su cosa guardiamo e quando guardiamo. Per questo poi il film si allarga a delle messe in scena e ad un uso dell’immagine che spero sia in continuità con quello che ho sempre cercato di fare io. Il film non l’ho ancora finito, dovrebbe essere pronto per fine agosto. Cercheremo un Festival per lanciarlo ma già abbiamo un accordo di distribuzione con la Nexo Digital quindi dovrebbe rientrare nel loro calendario di proiezioni evento tra cinema e arte.

Tra i tanti ruoli che ricopre nel mondo del cinema c’è anche quello di sceneggiatore. Come coniuga il suo approccio libero e partecipativo alla sceneggiatura con un lavoro realizzato per un altro regista?

Se scrivo una sceneggiatura cerco di dare a chi me la commissiona il maggior numero di risposte possibile. Come regista, invece, della sceneggiature me ne infischio abbastanza ma è chiaro che non posso fare questo ragionamento se lavoro per qualcuno. Lì devo risolvere tutti i problemi e dare il maggior numero di possibilità e di risposte per capire il film dal punto di vista di chi me lo commissiona e non dal mio. Ovviamente poi dipende se è un produttore o un regista a chiederti una sceneggiatura perchè vorranno due cose differenti. Un produttore ha un tipo di aspettativa e vuole avere delle risposte, un regista tendenzialmente ce le ha già e cerchi di adattarti a quel suo stile.

Lei ha iniziato il suo percorso nel mondo cinematografico come critico. Oltre agli ovvi cambiamenti apportati dalla rivoluzione tecnologica e dalla diffusione di Internet, in cosa trova differenze, pregi e difetti tra la vecchia e la nuova critica?

Tutta colpa di Giuda
Tutta colpa di Giuda

Credo che la critica non esista più. Per chi è cresciuto e ha vissuto negli anni ’70, ma anche prima, la critica aveva una funzione molto forte, capace di creare un forte dibattito rispetto al ruolo stesso del cinema. Il critico aveva una funzione di autorevolezza nei confronti del film. Penso alla vecchia guardia con nomi come Tullio Kezich, Callisto Cosulich, lo stesso Morandini, Bianchi, personaggi che oltre a fare critica erano anche degli intellettuali a tutto tondo. Erano persone che non facevano il cinema con la macchina da presa ma facevano il cinema parlandone. Un meccanismo commerciale che si è messo in moto negli anni ’80 ha demolito questa funzione della critica. Ormai non è tanto fare la recensione quanto fare l’anticipazione, l’intervista con il regista, la corrispondenza dal Festival. Parlare di cinema è diventato un’altra cosa che esula molto dal parlare del film dal punto di vista artistico. Credo che da questo punto di vista la funzione della critica sia sostanzialmente scomparsa. Poi c’è moltissima gente che di cinema parla e discute ma in una forma molto polverizzata che è il web.

Un’eccessiva “democratizzazione”?

Il cinema si è sempre prestato un pò a questo. Se uno fa il critico d’arte si suppone che abbia studiato, se fa il critico musicale pensi sappia leggere la musica. Qualsiasi altra forma artistica implica un’idea di conoscenza, di studio. Il cinema invece è sempre stato aperto a tutti. Lo stesso Moravia che scriveva sull’Espresso è l’esempio di tutte quelle persone alle quali non mi riferisco in accezione negativa ma che parlano o hanno parlato di cinema come un appassionato e non come qualcuno che ha studiato cinema e sa cosa vuol dire fare cinema, sapendone valutare l’aspetto anche produttivo ed espressivo del film. Il cinema è così democratico che chiunque si sente autorizzato a dire la propria. Una cosa che c’è sempre stata ma terribilmente amplificata dal web.

Da un paio di settimane sono stati svelati i dati sullo stato del cinema italiano raccolti nel “Rapporto 2014. Il Mercato e l’industria del cinema” che parlano di un incremento produttivo di film ma anche di un calo significativo del pubblico. Come si spiega questo continuo retrocedere nonostante il successo di realtà come L’America Occupato con le sue proiezioni clandestine che parlano invece di un pubblico attivo e partecipe?

La situazione è molto complessa. È cambiata l’antropologia del cinema. Credo che quello che oggi il pubblico si aspetta dal cinema e dall’andare a vedere un film in sala sia profondamente diverso da una mentalità che c’era anche solo dieci anni fa. Il cinema per me, al di là del valore dei film, si trattava di una cosa che si vedeva in compagnia sul grande schermo e in una forma di autorevolezza. Oggi da una parte ci sono dei problemi produttivi dall’altro basta vedere cosa è successo agli schermi. Una volta per vedere un film c’era lo schermo grande della sala, poi è arrivata la televisione come alter ego, oggi si possono vedere su computer, telefoni cellulari, tablet. Questo rapporto con il cinema che è sempre più “piccolo” e puoi interrompere mi colpisce moltissimo. Una volta il cinema significava vedere un film e per due ore senza fare altro. Oggi con i multiplex, con le distrazioni digitali, tutto questo è cambiato. Dal 2006 ad oggi ho fatto solo due film di finzione perchè la domanda che mi pongo è per chi farei un film oggi. Preferisco fare lavori come questi strani documentari, fare del cinema parallelo e non di finzione, perchè forse nella sua unicità e originalità c’è un pubblico disposto a vederlo sotto forma di evento.

Proprio parlando di schermi, in questi anni abbiamo visto come la tv, specie oltreoceano, sia diventata una concorrete spietata del grande schermo. Cosa che in Italia si fatica a realizzare..

Nel momento esatto in cui il cinema non è più stato quell’evento che si guarda ritualmente, imposto da un’unità di tempo e di luogo, la televisione se n’è impossessata realizzando una forma di serialità molto bella. Se quello che una volta veniva comunicato nel cinema non ha più bisogno del luogo fisico lo si porta sulla televisione che oggi diventa lo strumento più interessante per lavorare. Per capire come mai questo in Italia non accada basta accendere il televisore e farsi un giro sui vari canali per comprendere perché certe cose non si muovono. Manca l’interesse nel fare qualcosa di diverso, non solo contenutisticamente. Poi ovviamente c’è Sky con produzioni riuscite come Gomorra. Ma realizzando un prodotto l’anno, nonostante venga anche esportato, non riesce ancora a cambiare il mercato.

Manuela Santacatterina

Per maggiori informazioni sul workshop di regia consulta il sito del Milano Film Network!