Roberto Zibetti diventa alieno: 5 domande all’attore di “Addio fottuti musi verdi”

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Roberto Zibetti è un volto ricorrente del cinema d’autore italiano, da Io ballo da sola di Bertolucci a Nonhosonno di Argento, da I cento passi di Giordana a Pasolini di Abel Ferrara. L’hanno scorso l’abbiamo visto nei panni del dottor Farinelli nella serie Rai Rocco Schiavone, della quale sta girando la seconda stagione. Ma per lui è anche il momento di una sfida tutta nuova: è nel cast di Addio fottuti musi verdi, la commedia fantascientifica demenziale dei The Jackal, i videomaker napoletani divi di Youtube. E per di più nel ruolo di un alieno: ecco la sua avventura raccontata in 5 domande chiave!

Come sei venuto a contatto con i The Jackal?
In maniera tradizionale, li ho conosciuti per caso dopo la pubblicità del Leerdammer, mi hanno sorpreso e mi sono chiesto chi fossero. Due settimane dopo ricevetti una convocazione tradizionale, feci il provino. Quello che non era tradizionale è stata la lettera di presentazione del progetto: in quella lettera erano chiare le loro intenzioni e che quello che li caratterizza è l’ironia beffarda, la demenzialità intelligente e dissacrante. Il loro è un  linguaggio nuovo, inevitabilmente mediato dal web, ma da cui bisogna ripartire con coscienza fruttando il meglio di quello che è citazionistico e frammentario. Loro sono consapevoli di ciò, lo fanno bene e con intelligenza.

Come ti sei preparato al ruolo di Brandon?
Il ruolo dell’alieno Brandon è sicuramente curioso. La base di partenza è stata quella di tutti i ruoli: con uno studio attento, asettico, molto letterale, pensando al personaggio scritto dagli autori. Dopodiché mi sono ispirato agli emoticon per le espressioni facciali e per i gesti, cose standardizzate del linguaggio della rete. Brandon è un personaggio senza emozione che assembla standard emotivi. Nello stesso tempo, però, è curioso e nostalgico della emotività umana. Mi sono ispirato anche alle voci nelle stazioni (per esempio “sul binario 1 è in arrivo il treno per Reggio Emilia”) e ad alcuni rumori che sentiamo nella vita di tutti i giorni, come i campanelli e le sveglie. L’obiettivo era integrarmi in questi fuochi d’artificio di demenzialità creata poeticamente, e selezionata perfettamente dal regista Francesco Ebbasta. Poi io amo la tradizione del mimo: Buster Keaton, Charlie Chaplin. A tal proposito, Brandon è un clown bianco, quello più cattivello, autoritario, severo e preciso, vestito anni Venti, quasi marinaro, che si oppone invece all’augusto, quello pasticcione e stralunato.


Com’è stata l’atmosfera sul set? C’era tensione da parte dei The Jackal di fare il salto sul grande schermo?

I The Jackal rappresentano perfettamente il modello Napoli nel senso di sostenibilità economica, ancora prima che politica. Loro fanno del cazzeggio il carburante della loro creatività, ma tutti hanno ruoli molto precisi, ognuno è consapevole di avere una funzione, è una responsabilità d’impresa. Negli anni 70 nel cinema italiano c’era un humus culturale, c’era una politico del confronto e un senso di arte collettiva, e loro ce l’hanno. Sul set si percepiva quella tensione giusta che mette adrenalina. Loro sono perfettamente consapevoli del privilegio che gli è stato concesso, degli investimenti che hanno anche consentito l’uso degli effetti speciali, creando un’opera di fantascienza vera e rara per l’Italia. Credo che Napoli oggi sia la città più creativa, capace di resistere alla crisi e all’infighettamento generale. Nel nostro Paese è venuto un po’ meno l’atteggiamento punk che c’era una volta, mentre a napoli c’è ancora un disordine in grado di generare creatività. Una città che resiste bene per DNA alla standardizzazione generale. Lavorare ad Addio fottuti musi verdi mi è sembrato un tuffo in piscina alle terme, che mi ha dato una sensazione avvolgente.

Che ricordi hai di Radiofreccia? Mi sembra che quel film avesse un’attitudine punk, a prescindere dal fatto che il regista fosse Luciano Ligabue, proprio come ce l’ha Addio fottuti musi verdi. Un tuo monologo è diventato un cult.

Quello infatti è stato un set magico, dove la magia non era solo il prodotto finale, ma proveniva da un lavoro magnifico di ciascuno. In Radiofreccia il cinema aveva fatto il suo dovere, univa persone e professionalità, che si confrontavano creativamente e umanamente. Mi ricordo partite di calcetto con tutta la troupe, e la sensazione di far parte di un collettivo. Tutto l’ambiente era un po’ americano, ci si vestiva con cose texane, si ascoltava molto rock. Percepivamo tutti un’identità americana e nello stesso tempo nostrana, autentica e genuina. Boris era un personaggio monocorde e cattivissimo. All’epoca quel monologo sembrava eccessivo, invece vent’anni dopo possiamo dire che le cose vanno così. Mi definisco un radical punk: come attori, abbiamo il dovere di dialogare in modo adulto e professionale con il pubblico, ma abbiamo anche la possibilità di portare avanti un discorso di inquietudine, che è anche il senso che sta alla base di Addio fottuti musi verdi. Associo i The Jackal a Jack Black: in Tenacious D e il destino del rock ci sono idee sotto il vestito demenziale fuori dagli schemi. Gli americani a volte non vendono solo fuffa, ma sono capaci di intelligenza e autoironia.

I tuoi prossimi progetti?
Al momento sono ad Aosta per Rocco Schiavone 2, una rivoluzione per gli standard delle fiction italiane. Poi sarò in Immaturi – La Serie con Luca e Paolo, dove interpreto un supercapoccione della MIT. Sarò in una puntata di Non uccidere, un’altra serie italiana notevole e interessante. Sto portando in teatro Gerusalemme Unplugged – Una soap metafisica, un’ora e un quarto attraverso cui ricostruiamo una soap opera pornografica come la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. All’epoca Gerusalemme liberata era come oggi Guerre stellari, influenzò il romanticismo, porta l’aspetto profano della Controriforma. Poi ho il monologo di Desert Visions. Un fantasma lungo il viaggio: cinquanta minuti tra Hotel California e Paris, Texas. Il nostro lavoro è generare poesia ed economia, dobbiamo essere mainstream ma intelligenti, il nostro obiettivo dev’essere raggiungere le masse, facendolo però in modo intelligente. Tra Ghali e Fabio Rovazzi c’è differenza: entrambi parlano alle nuove generazioni ma in maniera diversa, perché il primo fa ragionare.

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