«Sai cosa vorrei? Tutte le persone che mi hanno voluto bene. Averle qui intorno, come un muro». Lo dice Giuliana/Monica Vitti in Deserto rosso. Parole che aprono non casualmente il doc Vitti d’arte, Vitti d’amore di Fabrizio Corallo (prodotto da Dazzle Comunication e Indigo Film con Rai Documentari e visto in anteprima alla Festa del Cinema di Roma), dedicato all’attrice in occasione del suo 90mo compleanno, il 3 novembre scorso.
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La grande attrice era assente dalla scena pubblica a causa di una malattia che lei stessa descrive attraverso le pagine autobiografiche lette nel film da Pilar Fogliati: «Sono certa di aver dimenticato tutta la mia parte, e questa volta non ho dimenticato solo il personaggio, ma anche l’interprete». Ma allora, e tanto più, s’inverano le parole della Giuliana di Deserto rosso, e si materializzano volti e voci di chi con lei ha scoperto, provato, vissuto momenti irripetibili.
È stata, tra le altre cose, «la prima mattatrice» per Paola Cortellesi e «la regina della commedia» secondo Michele Placido, che con lei recitava in Teresa la ladra, firmato da Carlo Di Palma, direttore della fotografia “elettivo” dell’attrice insieme al futuro marito e regista degli ultimi film, Roberto Russo. Ma nessuna definizione può esaurire la versatilità spiazzante di Monica Vitti, all’anagrafe Maria Ceciarelli (cambiato perché, come racconta lei stessa, «non lo dicevano mai giusto»): esordio in teatro a 14 anni, nel 1945, poi l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica (dove tornerà da docente). «Dentro di sé – afferma nel doc Laura Delli Colli, amica e studiosa della Vitti – aveva una voglia di crescere, di liberarsi che ha trovato sicuramente attraverso lo studio, il teatro, qualcosa in cui la sua famiglia non credeva».
I primi grandi maestri, ricorda Goffredo Fofi, sono Orazio Costa e Sergio Tofano, il creatore del Signor Bonaventura. E (già) esplode quel talento brillante che la porterà a confrontarsi da pari a pari con grandi controparti maschili, da Alberto Sordi a Marcello Mastroianni. Insegnando anche a futuri mostri sacri: «Sapeva tutti i trucchi del mestiere, la luce, come vestirsi», racconta Giancarlo Giannini: «Dicevano che era molto scontrosa e io invece ho trovato una compagna di lavoro straordinaria. Da lei ho solo imparato, e mi sono molto divertito». Ma quel divertimento passa (anche) attraverso i capolavori di Michelangelo Antonioni, tra deserti e incomunicabilità (la mitica trilogia formata da L’avventura, La notte, L’eclisse).
«Antonioni – riflette Sandro Veronesi – ha depotenziato nei suoi film quella carica di simpatia perché doveva farne il simbolo di un mistero». Ma, a ben vedere, c’è sempre qualcosa di misterioso nel fascino contraddittorio dell’attrice e dei suoi personaggi. Per Enrico Vanzina (che Vitti coinvolse nella lavorazione di Un amore perfetto o quasi) è «difficile spiegare qual è il Vitti touch. È uno sguardo magnetico, una bellezza che sullo schermo esplode». Ma è anche, dice Barbara Alberti, una «grandissima intelligenza dell’esistenza». Tale, forse, da portarla a costruire personaggi femminili in grado di riflettere pulsioni e istanze contrastanti di tante donne nell’Italia che cambia. Figure come le indimenticabili protagoniste di commedie come La ragazza con la pistola di Monicelli, Dramma della gelosia di Scola, Amore mio aiutami dell’affezionatissimo sodale Sordi (con cui duetta indimenticabile anche in Polvere di stelle).
Donne di cui Vitti restituisce «non i difetti, ma le insicurezze», secondo Pilar Fogliati, «profonda ma senza perdere quella leggerezza, spontaneità, e il divertimento che lei ci metteva». Una leggerezza che sapeva portare anche fuori dal set: come quella sera, racconta Christian De Sica, in cui «Keith Carradine si mise a cantare la canzone che aveva cantato in Nashville di Altman, Im easy. Non sapevamo come rispondere e allora io e Monica abbiamo cominciato a cantare “Ma che ce frega, ma che ce ‘mporta”».
Difficile, allora, tracciare il confine. Tra artista e persona, che «nella realtà era molto timorosa, molto fragile, però improvvisamente si trasformava sulla scena e veniva fuori un grande carattere», ricorda Carlo Verdone. Il confine tra attrice e «co-autrice, come spesso gli attori quando sono molto bravi», per citare Citto Maselli (che la diresse in Fai in fretta ad uccidermi… ho freddo!). Il confine tra commedia e dramma: «Nella allegria e nella voglia di vivere della Vitti – secondo Valerio Caprara – si parte da un sottofondo di tristezza. Ecco, questa parte di malinconia si è trasmessa anche nella parte comica». E forse proprio nell’indeterminabilità dei confini sta il segreto della potenza espressiva di un’attrice che, mentre guardava gli attori dell’Accademia, sognava di «vivere più vite, dentro quel cancello al di fuori della vita». Ci è riuscita, e noi con lei.