Cartoons on the Bay, Ari Folman: «L’arte del racconto non svanirà mai. Le serie TV? Non riesco a guardarle»

Il nostro incontro con il cineasta candidato all'Oscar tra riflessioni sul futuro del cinema, animazioni e gusti personali

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Cartoons on the Bay alza il sipario con uno dei suoi ospiti internazionali più attesi, Ari Folman, premiato con il Pulcinella award alla carriera e protagonista di un incontro con il pubblico nel quale ha ripercorso la sua filmografia, dallo splendido e pluripremiato Valzer con Bashir (2008) allo sperimentale The Congress (2013) fino al suo ultimo lavoro, Anna Frank e il diario segreto (2021). Ad approfondire l’incontro, una roundtable con la stampa alla quale abbiamo partecipato parlando di animazione, futuro del cinema, serie tv, gusti artistici e tanto altro.

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Come si sente a ricevere un premio alla carriera?
Avevo pensato di rifiutarlo. Sono superstizioso, mi sembrava un cattivo segno, ma come si fa a rifiutare un viaggio in Italia? [ride]

Al Festival di Cannes si è discusso sull’ultimo film di Indiana Jones in merito al progresso della tecnologia e sul fatto che in futuro gli attori possano venir rimpiazzati da versioni digitali. Come la pensa? 
Credo che la prospettiva di questa risposta cambi in base all’età. Non possiamo prevedere che tipo di contenuti consumeranno le nuove generazioni. Quando io ero un ragazzo non avevamo la tv a casa perché mio padre pensava che ci avrebbe rovinati. Io ai miei figli ho messo un televisore in ogni camera. Siamo arrivati al punto in cui alcuni genitori si ritrovano a pregare i loro figli di guardare la televisione perché passano tutto il giorno su Tik Tok. Questo è il cambio generazionale. I giovani di oggi sono diversi, non leggono più libri, crescono con i videogiochi, le serie su Netflix. Vanno meno al cinema, vedono meno tv, ma non so se potremo mai predire quali contenuti andranno a consumare fra 10 o 20 anni. Di una cosa però sono sicuro: le storie rimarranno per sempre. Come verranno raccontate, non lo possiamo sapere. Ma l’arte del racconto resterà. 

Nei suoi lavori ha mostrato una forte inclinazione alla varietà stilistica e tecnica. Quando pensa ad una storia ha già in mente la tecnica che andrà ad usare? Qual è il suo approccio?
Cerco di iniziare i progetti senza avere piani troppo solidi in mente, così da non bloccarmi. Per esempio con Anne Frank sapevo che volevo fare sfondi in stop motion e avere due personaggi profondi. Poi sono andato a Londra, ho lavorato con i creatori de L’Isola dei cani e là mi sono innamorato dell’idea che il film dovesse esser fatto anche con dei pupazzi, non solo con gli sfondi. Ci siamo stati appresso per anni. Una delle poche scelte sicure che abbiamo fatto in partenza è stata la palette dei colori. Il film è diviso in due parti, quella contemporanea e quella storica. Per la prima abbiamo usato colori vividi, per l’altra bianco e nero e seppia. Per rispondere alla domanda, è una combinazione di fattori. Cerco di non partire con idee solide, ma qualcosa in partenza c’è.

Quale linguaggio pensa sia più vicino a raccontare la verità? L’animazione o il live-action?
Non credo nella verità. Credo che nel cinema – come nell’arte in generale – sia tutto soggettivo. Anche nei documentari più realistici. Dal momento che metti la telecamera in una determinata posizione stai facendo qualcosa. La verità assoluta non c’è in nessuna forma. Quando uscì Waltz of Bashir con quella forma molto innovativa, il documentario animato, mi chiesero se fossi preoccupato che la gente potesse non credere alla storia. Credo che i cineasti siano come dei maghi, creano qualcosa che non esiste. 

Anna Frank è considerata una supereroina. Cosa pensa lei dei cinecomic?
Personalmente non considero Anna Frank una supereroina, forse Kitty [la sua amica immaginaria] sì. Tornando ai cinecomic, molti non mi piacciono, ma alcuni devo dire che  sono brillanti. Il nuovo Spiderman [Across the Universe] ad esempio, non vedo l’ora di vederlo. Il primo è stato geniale, ho amato come hanno mischiato le tecniche d’animazione. Mi piacciono poi i film più umoristici, tipo Deadpool e I guardiani della galassia.

Crede che l’animazione riesca a rendere più accessibili temi ostici come la guerra e la politica?
Sì, specialmente per i bambini. Purtroppo non credo molto nell’animazione per adulti, nonostante vi abbia rotto molto muri. Semplicemente perché si raggiunge un pubblico molto più ristretto. Per carità, ci sono grandissimi film, Flee ad esempio, ma alla fine l’animazione per adulti rimane una cosa molto limitata, non sfocia oltre il livello artistico, i festival o le piccole distribuzioni. Credo che l’obiettivo debba essere raggiungere grandi pubblici. E non per forza con temi politici. Pensate a Inside Out, un grandissimo film. Affronta la depressione, è un film coraggioso. Ha un target per bambini così possono venire a contatto con un tema importante. Questo è il miglior risultato.

Secondo lei il cinema può essere terapeutico? Bisogna fare film per il pubblico o per se stessi?
Valzer in Bashir è usato nelle sessioni di terapia per i soldati che soffrono di stress post traumatico per ricollegarsi al loro passato.
Credo che per i cineasti qualsiasi film si faccia è un cerchio che si chiude, non dev’essere per forza autobiografico. Ma se non trovi te stesso mentre stai facendo un film, non credo che funzioni. Questa regola vale per tutte le arti.

Lei che tipo di spettatore è? Cosa le piace vedere? 
Vado spesso al cinema, vedo qualsiasi cosa. Anche a casa. Ho visto di recente la filmografia di Alice Rohrwacher. La ritengo una delle migliori voci sulla piazza. E’ fantastica. Ho visto i suoi primi film e il corto. È diversa da tutti gli altri, unica.

E le serie TV le piacciono?
Non ho la pazienza di guardare serie tv, non riesco ad andare oltre i 6,7 episodi. È troppo. L’ultima serie che ho visto al completo è stata Better Call Saul, ma per il resto non riesco.