Giancarlo Giannini compie 80 anni: «Non so neanche come si recita!»

Il grande attore e doppiatore ripercorre la sua carriera: tra i segreti del sodalizio con Lina Wertmüller, il ricordo di un cinema che non c’è più e l’indefinibile arte della recitazione

0

«Mica lo so, cos’è l’arte: io non so neanche come si recita!». A dirlo, per quanto incredibile possa sembrare, è uno dei maggiori attori italiani viventi, Giancarlo Giannini: 6 David di Donatello, 6 Nastri d’argento, un Prix d’interprétation masculine a Cannes e ottant’anni il 1° agosto.

Un’altra solennità, quest’ultima, che si diverte a smontare: «Non do molto valore all’età: anzi, pensavo di averli già compiuti l’anno scorso». L’occasione per raccontarsi in vista di questo traguardo è arrivata alla 58ma Mostra Internazionale del Nuovo Cinema – Pesaro Film Festival, dove Giannini ha presentato Pasqualino Settebellezze (che gli valse la nomination all’Oscar nel 1977), restaurato dalla Cineteca Nazionale (col contributo della Genoma Films di Paolo Rossi Pisu).

Pasqualino Settebellezze

Un titolo, e una regista, Lina Wertmüller (scomparsa nel 2021), a cui l’attore riconosce di dovere moltissimo: «I miei film più belli li ho fatti con lei». E paradossalmente, racconta Giannini, quella commedia grottesca e cattivissima che non si ferma neanche di fronte ai lager nazisti, «Lina non voleva farla. Gliel’avevo proposta io, ci è voluto del tempo per convincerla. Mi diceva: “Non si può far ridere su un campo di concentramento”, e io rispondevo: “Voglio fare Pulcinella in un campo di concentramento!”».

Alla base c’era il vero Pasqualino Settebellezze, conosciuto dall’attore a Cinecittà: «Era un ebreo napoletano», spiega Giannini, «molto brutto, e però si diceva che avesse molto successo con le donne, per questo si chiamava così». Dalle storie di questo singolare personaggio è nato quindi l’apice della collaborazione tra Wertmüller e il suo interprete più iconico, divenuto popolare in tutto il mondo. E pensare che, rammenta Giannini, «quando facevo teatro, i grandi registi, come Antonioni e Visconti, amici di Zeffirelli, con cui lavoravo, venivano a vedermi e mi dicevano: “Sei un animale da palcoscenico, non cercare di fare il cinema”».

Per fortuna Lina Wertmüller non la pensava così: «I primi film insieme», ricorda l’attore, «sono stati i “musicarelli”. Lina si firmava George Brown! Servivano a mantenermi in teatro, venivano fatti in venti giorni ma molto bene, e guadagnavano un sacco». Poi, il momento chiave con Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972): «Io nel frattempo avevo lavorato con Scola, e proposi a Lina di fare un personaggio “popolare”. Lei aveva scritto la storia di un operaio, che però non voleva fare nessuno, né Manfredi, né Mastroianni. Lina viveva in una casa piena di sceneggiature e soggetti, mi disse: “Sta lì in mezzo, se lo trovi!”. Io lo trovai, lo lessi e risposi che volevo farlo».

Mimì metallurgico ferito nell’onore

Ma lo stesso Giannini dovette superare qualche diffidenza: «I produttori in realtà volevano un siciliano per la parte, penso Lando Buzzanca. Io però andai, qualche mese prima dell’inizio delle riprese, in Sicilia col registratore e la cinepresa per capirci qualcosa di quella terra. E lì ho scoperto della gente straordinaria, e un grande attore che in tre giorni mi ha insegnato il dialetto, Turi Ferro, al quale devo tutto il successo di quel film e i premi che mi hanno dato».

Decolla anche l’indimenticabile partnership con Mariangela Melato: «Con lei siamo stati una coppia eccezionale, ma era facile, venivamo entrambi dal teatro, e lei non era solo un’attrice, ma anche una donna intelligente. Sono fortunato ad aver lavorato con delle grandi interpreti». Impossibile, poi, non menzionare Film d’amore e d’anarchia (1973) e Travolti da un insolito destino (1974). Per il primo, ricorda l’attore, «avevo otto ore di trucco, cominciavo alle due del mattino, dormivo venti minuti al giorno! Lo avevo imparato da una tecnica yoga indiana». L’altro «nasce come una proposta, mia e di Lina, di andare a fare una vacanza su un’isola. È stato veramente un film difficilissimo, ma lei era una che non si fermava davanti a nulla, un genio».

Travolti da un insolito destino

E forse l’unico rimpianto è quello di non aver potuto realizzare un ultimo progetto insieme: «Voleva fare un altro film con me prima di morire: mi chiamò, mi disse: “Giancarlino, vorresti?”, e io: “Ma certo!”. Sarebbe stato bello finire la sua carriera, e un po’ anche la mia, così come era cominciata».

[…]

CONTINUA A LEGGERE L’INTERVISTA COMPLETA SU CIAK AGOSTO, ATTUALMENTE IN EDICOLA