Flee, intervista al regista Jonas Poher Rasmussen

Uno dei film più premiati degli ultimi anni che ha segnato un record che difficilmente si potrà eguagliare. Abbiamo incontrato il regista di questo piccolo fenomeno

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Flee Jonas Poher Rasmussen

Fare la storia del cinema non capita tutti i giorni. Certo non ci aveva pensato Jonas Poher Rasmussen quando ha iniziato alcuni anni fa a pensare al progetto di Flee, il documentario animato che da un anno raccoglie premi in tutto il mondo e che l’8 febbraio  è diventato  il primo film in 94 edizioni degli Oscar a essere candidato come Miglior Film Internazionale, Documentario e Lungometraggio Animato.

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Un risultato straordinario, che segue i tre premi agli European Film Award e la doppia candidatura ai BAFTA. Sono 65 i premi raccolti in dodici mesi da Flee, che racconta la storia di Amin (il nome è fittizio, per rispettare la privacy del vero protagonista), docente universitario che vive in Danimarca  e sta per sposarsi con il suo compagno. Poco prima delle nozze, il passato torna a fargli visita, facendogli ripercorrere gli anni della sua gioventù, quando dall’Afghanistan arrivò in nord Europa dopo un lungo viaggio, con la speranza di chiedere asilo. Flee è il racconto di una fuga che si trasforma in un inno alla vita e alla libertà.

Rasmussen preferisce non pensare più di tanto ai riconoscimenti, «sto lavorando a un nuovo progetto e voglio restare concentrato», ma è indubbio che la soddisfazione sia enorme, soprattutto per avere sdoganato un genere, il doc animato, e per avere ribadito che anche in Europa si fanno bellissimi cartoni animati, come ha già dimostrato la factory irlandese Cartoon Saloon, che l’anno scorso con Wolfwalkers era candidata per la quarta volta all’Oscar contro i colossi americani.

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Abbiamo incontrato Jonas Poher Rasmussen per farci raccontare com’è nato questo piccolo film dei record arrivato nelle sale italiane il 10 marzo distribuito da I Wonder Pictures.

Jonas Poher Rasmussen, partiamo dall’inizio: come e quando è nato Flee?

Ho conosciuto Amin 25 anni fa e mi ha raccontato la sua storia quasi subito. L’idea di trarne un film è nata però solo otto anni fa e la produzione vera e propria è cominciata nel 2017.

Come hai lavorato sul processo creativo del film?

Tutto è basato su quello che mi ha raccontato Amin nel corso degli anni. Ho scritto la sceneggiatura sulla base di una ventina di interviste e da lì ho creato una prima struttura che ho arricchito successivamente in sede di regia. Quando fai un documentario ti devi basare sul materiale che hai, tra repertorio e girato. Grazie all’animazione ho avuto la possibilità di realizzare le scene nel modo che volevo, con molta più libertà creativa.

Qual è stata la necessità primaria che ti ha spinto a raccontare questa storia?

Prima di tutto Amin è un mio amico e sentivo che aveva bisogno di confrontarsi il suo passato, di liberarsi per poter andare avanti con la sua vita. Nonostante fosse da molto tempo in Danimarca, con una casa e una vita, mi sono reso conto che ancora non era in grado di vivere questa condizione con serenità, come se fosse ancora in fuga da qualcosa.

Questo è l’aspetto che coinvolge maggiormente lo spettatore.

È vero, è difficile separare i piani esistenziali del racconto. Credo che Flee sia una storia universale perché ognuno di noi, a un certo punto, si domanda quale sia il suo posto nel mondo. Ovviamente il fatto che Amin abbia vissuto tutta la sua vita nella condizione di rifugiato è fondamentale nel film, così come importantissimo è il rapporto con la sua sessualità, ma quello che davvero connette il pubblico è la consapevolezza della ricerca di sé.

Una seduta psicanalitica anche per chi il film lo ha realizzato.

Assolutamente. Ho una casa, sono sposato, ho due bambini, ma ancora non sapevo quale fosse il mio posto dal punto di vista creativo. Realizzare Flee mi ha fatto scavare dentro di me e ho capito molte cose.

Come sta oggi Amin?

Sta molto bene, è felicemente sposato con il suo compagno, hanno cambiato casa, hanno un altro gatto, perché quello che vedete nel film purtroppo non c’è più, e finalmente si sente davvero libero. E soprattutto, adesso il film è uscito da un po’, sente di poter condividere apertamente le storie della sua vita, e questa è la cosa che mi rende più felice.

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Ultima domanda sul tuo prossimo progetto.

Sto scrivendo una sceneggiatura tratta da una graphic novel che si intitola Desertør ed la vera storia del padre dell’autore, Halfdan Pisket. Non voglio però farne un documentario, ma un film di finzione, sempre animato.