#Pesaro58 – Incontro con Antonio Capuano e Tommaso Ragno

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Il regista e l’attore alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema – Pesaro Film Festival per presentare il film Il buco in testa e il libro sul cineasta, Da una prospettiva eccedente. Capuano: «Il presente è una melma, è diventato tutto televisione. Ho un po’ nostalgia del tempo passato con Paolo Sorrentino».

Antonio Capuano è, tra le tante cose, «un rabdomante», dice neanche troppo metaforicamente Tommaso Ragno, giurato e, col regista partenopeo, ospite della 58ma Mostra Internazionale del Nuovo Cinema – Pesaro Film Festival, dove i due hanno presentato al pubblico del Cinema in Piazza il più recente lungometraggio di Capuano, Il buco in testa.

L’immagine del rabdomante, Ragno la usa ripensando proprio a un momento della lavorazione di quel film, dove l’attore interpreta un ex estremista di sinistra segnato dalle tragiche conseguenze di un gesto di violenza, che ha causato la morte del padre di Antonia, la protagonista del film interpretata da Teresa Saponangelo. «Siamo su una strada, in via De Amicis», racconta Ragno rievocando le riprese, «c’è traffico» – perché lo stesso Capuano, ci tiene a precisare quest’ultimo, voleva che non si fermasse il traffico durante la scena – «non capisco nulla e vedo Antonio che fa dei gesti: per me era come stare in mezzo a una sorta di battaglia rumorosa dove devi intuire ciò che ti dice un rabdomante. Tu non capisci, ma chiudi gli occhi e lo fai».

Insomma, un’esperienza viscerale e profondamente calata nella realtà, proprio come il cinema del regista, che rifiuta la qualifica di “maestro” pur essendo considerato tale da più di un artista (tra questi un certo Paolo Sorrentino, che l’ha omaggiato nel pluripremiato È stata la mano di Dio). Ma, ribatte Capuano, «l’unica cosa che vorrei insegnare è la libertà». E, in effetti, l’ottantaduenne cineasta di Pianese Nunzio e Luna rossa è antitetico a qualsiasi tono di cattedra o distanza elitaria: un’intervista con lui, tra un «cazzo» e un termine dialettale, somiglia più a una chiacchierata, senza regole di forma e contenuto, con un vecchio figlio delle strade napoletane che ti parla di qualunque cosa mantenendo la stessa viscerale sincerità.

Non ha problemi, ad esempio, a dire che per lui quest’ultimo «è stato un brutto anno», malgrado i tanti tributi, da Sorrentino al libro Da una prospettiva eccedente (a cura di Armando Andria, Alessia Brandoni, Fabrizio Croce e dell’editrice Silvia Tarquini), che si presenta proprio alla Mostra di Pesaro il 24 giugno. E però «la professione non è niente rispetto alla tua felicità». Un po’ come, secondo Capuano, il cinema non è niente senza la vita vera degli esseri umani: «Il film bisogna che diventi come la vita. Perché la vita è la prima cosa». E, qualunque sia la storia che vuoi raccontare, «non puoi dimenticare la realtà. Senza la realtà nemmeno l’arte astratta avrebbe senso».

Di realtà ce n’è tanta anche ne Il buco in testa. Quella di una stagione complessa della storia italiana come gli anni ’70 e della sua eredità, tutt’altro che riducibile alle derive violente dei cosiddetti “Anni di Piombo”. Capuano al contrario ricorda quella fase come «un periodo molto fecondo: forse anche perché ero guaglione». Fecondo pur negli errori, che d’altronde ci sono sempre, perché «non siamo tutti dei e tutti angeli». Un periodo dove, tra l’altro, «per la prima volta i democristiani avevano paura. Poi non è più accaduto». Oggi invece per contrasto «la DC impera», nel senso che non è mai stato così trasversalmente diffuso «quel modo di fare politica».

Non è positiva, in effetti, la visione che Antonio Capuano ha del presente. Il mondo di oggi, dice, «è una melma: il contemporaneo è melmoso». Siamo stati «vinti dalla pubblicità. Aveva ragione Pier Paolo [Pasolini, ndr], il conformismo ci ha stroncato». Un conformismo e un consumismo che, culturalmente e mediaticamente parlando, si traducono in una «televisione perenne, per cui anche il cinema è servo della televisione. È diventato tutto televisione». E, a questo proposito, Capuano ne ha anche per Esterno notte di Bellocchio: «L’ho visto, e mi dicevo: “Ma taglia!”. Ma come fai a regalare il tuo cinema alla televisione?».

Nostalgia del passato? In realtà, parlando di nostalgia, Capuano ammette di provarne in particolare per il tempo passato col giovane Paolo Sorrentino: «Ci vedevamo, prendevamo il caffè, parlavamo. E quando lui è andato a Roma, mi è mancato. Mi manca tuttora. Però oramai è imprendibile». Parlando della sequenza di È stata la mano di Dio in cui compare come personaggio (interpretato da Ciro Capano), Capuano rimarca: «Paolo ha il suo sguardo ed era giusto che io lo accettassi». Ma alla domanda se ci si sia ritrovato in quell’interpretazione, confessa: «Sì e no». Nella realtà infatti «non sarei così perentoriamente sgarbato», pensando al momento in cui il Capuano del film stronca in pubblico un’attrice durante la sua esibizione. Non riesce poi a capacitarsi della parte del tuffo in mare: «Gli ho detto, a Paolo: “Scegli qualcuno che sappia nuotare!».

Ma Capuano lo si ama (anche) per questo, per la schiettezza calorosa che sa trasmettere prima di tutto ai suoi interpreti sul set. «Quando ci siamo incontrati la prima volta», ricorda con un sorriso Ragno, «avevo quaranta chili in più rispetto a ora, e lui mi disse: “Cumpa’, fai schifo!». Dell’attore, poi, a colpire Capuano furono «gli occhi bellissimi» e quella capacità, che solo i bravi interpreti hanno, di aggiungere al proprio personaggio dettagli di verità che lo stesso regista e autore del film non avrebbe immaginato. Nel caso de Il buco in testa, per esempio, un certo modo «più guardingo nell’attraversare la strada» rispetto alla collega Saponangelo durante le scene girate a Milano.

E ormai per Ragno (reduce dal Nastro d’argento come Miglior attore non protagonista, ex aequo con Francesco Di Leva, per Nostalgia di Mario Martone), parlare del suo lungometraggio con Capuano «è come parlare di un familiare. Potrei fermarmi all’aspetto tecnico ma non sarebbe il punto. Non è il punto, quando si riesce a fare del cinema». Ovvero quando, precisa Ragno parafrasando l’Amleto, si va «oltre lo spettacolo. Ma non si va nello psicodramma, si va nell’arte. Ti viene paura, perché ti porta su un baratro, ma su un baratro dove ti senti in buone mani». E, prosegue, con i film di Capuano, i quali «hanno tutti una dimensione mitica», diventi davvero «un evocatore di fantasmi». Lavorando con un regista (e un uomo) orgogliosamente radicato nel Novecento: «Per me», chiosa l’attore, «un uomo del ’900 è uno che faceva le cose perché potessero durare. E queste sono storie che durano».