È al cinema dal 14 novembre (distribuito da Lo Scrittoio) La cosa migliore, un film di Federico Ferrone nel quale i temi del radicalismo legato all’Islam si intrecciano con una inquietudine che di questi tempi sembra assillare tanti, non solo giovani. Un film di grande attualità che, dopo la presentazione ad Alice nella Città, durante la Festa del Cinema di Roma 2024, il regista si augura possa lasciare “un piccolo senso di sollievo e redenzione alla fine” nel pubblico che lo andrà a vedere in sala.
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Un interessante esordio nel cinema di finzione per un cineasta già noto per i suoi lavori in ambito documentaristico, del quale lo stesso Ferrone (anche sceneggiatore, con Giampiero Rigosi e in collaborazione con Olivier Coussemacq) ci parla, sottolineando l’apporto del cast – composto dal Luka Zunic di Non odiare, Abdessamad Bannaq, Lawrence Hachem Ebaji, Fabrizio Ferracane, Giulia Valenti e Francesca Rabbi – e come certi elementi trattati nel film possano avere una valenza universale, dal vuoto che in Occidente spinge al desiderio di appartenenza, in forme vecchie o nuove (religione, politica, sindacato, calcio, musica), alla difficoltà di affrontare un percorso di cambiamento e le scoperte che comporta, non sempre facili da comprendere, per nessuno.
Il protagonista, Mattia, infatti, è un adolescente della provincia italiana amante dell’hip-hop, come tanti. Tormentato dal senso di colpa per la morte del fratello, però, lascia la scuola, entra in fabbrica e inizia ad avvicinarsi all’Islam tramite un collega marocchino. “Eviterà la trappola dell’isolamento e della violenza?“, si chiedono le note introduttive del film, che sottolinea come “Capire le ragioni della violenza non significhi giustificarle, ma sia un atto necessario”.
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“Come tutti, a metà anni 2010, sono rimasto colpito dagli attentati dell’Isis, e in particolare dai foreign fighters che partivano per la Siria e l’Iraq – dichiara ancora il regista Federico Ferrone. – Al di là dell’orrore oggettivo delle loro azioni, scavando nelle loro vite emergevano profili e motivazioni molto diverse. Ho voluto immaginare la parabola di un ragazzo normale: intelligente, ipersensibile, ma anche inquieto, rabbioso. Una specie di figlio o fratello preda di una deriva pericolosa, ma con cui fosse possibile empatizzare”. Ferrone, infatti, forte della sue esperienze di vita (ha vissuto per anni a Istanbul e ha anche collaborato con il network arabo Al Jazeera) e di documentarista, è un attento osservatore del mondo musulmano e dell’Islam in Europa: basti pensare al documentario Il nemico interno – Musulmani a Bologna, diretto nel 2009 con Akram Adouani e Michele Manzolini, che racconta sei storie brevi sull’Islam in Italia. Nel 2011 l’UNESCO gli ha anche conferito il premio Young Artist for intercultural Dialogue between Arab and Western Worlds.
C’è stato un momento in cui si è parlato molto di questa forma di radicalismo, ora sembra che i problemi – o i “cattivi” – siano altrove, è una realtà ancora attuale?
Penso che il cinema debba essere un po’ in anticipo o un po’ in ritardo rispetto alla realtà. Dieci anni fa le circostanze storiche e politiche hanno reso il fenomeno del jihadismo esponenziale e visibile in Europa. Adesso sembra meno presente e minaccioso, almeno in Occidente, ma la violenza e il radicalismo sono una costante della storia: Cambiano (e neanche sempre) forme e luoghi, ma non scompaiono. Non mi stupirei se proprio il radicalismo islamista transnazionale tipo Isis (o l’Isis stesso) riprendessero forza. Ho la certezza, spero non la presunzione, che il film sia una storia ancora attuale
Come avete scelto le location e lo stile delle riprese, che sensazione voleva esprimere?
Volevamo un contrasto forte tra le scene italiane e quelle marocchine. Un’Italia fredda, dura, più simile al Nord Europa, e un Marocco caldo, languido, col mare. Sono visioni non sempre oggettive, ma funzionali al percorso di Mattia, che fugge dal suo quotidiano e si lascia cullare da una visione ingenua del Marocco. Abbiamo scelto Trento per via delle montagne e delle fabbriche e Tangeri per il mare, la sua natura cosmopolita, seducente. Le riprese in Marocco sono durate una settimana, l’ultima della lavorazione, ma prima avevamo fatto due ricognizioni approfondite. In generale i luoghi scelti sono quello che appaiono: la moschea è una moschea, il bar è un bar, la fabbrica una vera fabbrica. Ci siamo fatti guidare dai luoghi assorbendone il loro spirito piuttosto che modificarli. Sia le location sia lo stile sono frutto della lunga preparazione col direttore della fotografia Salvo Lucchese e di tutto il reparto. Ci piaceva l’idea di una camera a mano, che rendesse l’idea d’impulsività e vitalità del protagonista, ma senza eccessi di movimento, per valorizzare primi piani ed emozioni. In alcune scene, soprattutto in Marocco, ci siamo anche lasciati andare a uno stile più documentario, lasciando gli attori più liberi d’improvvisare.
Che ambiente era importante, o necessario, mostrare per rendere il contesto della fabbrica e della moschea, per mettere in evidenza certo pregiudizio?
È un film dai molti ambienti. Il Nord Italia della fabbrica e della famiglia del protagonista sono luoghi piuttosto ostili, non per cattiveria intrinseca, ma per le difficoltà delle persone (operai e genitori) che le vivono. Ci tenevo a mettere in scena una moschea pacifica, quasi banale, perché è un luogo dove il protagonista ritrova rapporti umani che dovrebbero essere la norma: persone ordinarie, alcune schive, diffidenti, ma tendenzialmente piuttosto cordiali, accoglienti. È un dato di fatto che questa inclusività dell’Islam, la sua ritualità, attraggano molti occidentali. In Italia e in altri paesi poco abituati all’Islam c’è un’idea distorta – a volte ad arte – sulle moschee, i minareti, i sermoni, gli imam, ma sono elementi che, nella realtà, sono di un’ordinarietà a volte quasi disarmante. Non ho certo chiuso gli occhi di fronte alle derive: è un film sul radicalismo, e il personaggio di Rashid è manipolatore, subdolo e violento. Ma umanizzare l’Islam – mostrandone la normalità, nel bene e nel male – mi sembra un atteggiamento di buon senso, utile a capire, ancor più che una scelta etica.
Crede nel concetto di Mektoub? Può essere una forza positiva o rischia di essere uno strumento per chi vuole plagiare gli altri?
Mektoub deriva dalla radice “scrivere”: un qualcosa che è già scritto, non modificabile. Come tutti i concetti filosofici forti, dipende dall’uso che se ne fa. Se porta rassegnazione, indolenza e cinismo, è pericoloso, appunto strumentalizzabile. Se serve a dare serenità e relativizzare i nostri dolori, ma anche i nostri successi, perché no? Può essere utile. Se chiedi a me, non credo che tutto sia già stato scritto da dio, neanche il futuro. Ma magari c’è una certa saggezza nell’accettare che il passato non sia modificabile, e nel concentrarsi sul presente, che è l’unico tempo su cui possiamo davvero intervenire.
Cosa vorresti che potesse scoprire chi lo vede? Che reazioni avete registrate nel pubblico?
Ho cercato di fare un film dai temi forti, ma dallo svolgimento non pesante, punitivo, e che lasciasse un piccolo senso di sollievo e redenzione alla fine. E molti, tra chi lo vede al cinema, mi dicono che è così. E poi era importante raccontare ambienti molto diversi tra loro, incuriosendo e dando ricchezza al film: le moschee italiane, la fabbrica, il Marocco e il Trentino. Oltre agli adolescenti, vorrei che fosse visto dai loro genitori e i loro insegnanti. In generale sto raccogliendo molti commenti positivi sugli attori, una costante a ogni proiezione, ma in particolare mi ha fatto piacere che, dopo la proiezione al Modernissimo di Bologna, due distinti ragazzi di famiglia musulmana siano venuti a dirmi che erano felici della rappresentazione non stereotipata. Molte spettatrici madri mi hanno detto di essersi immedesimate molto con l’angoscia della madre del protagonista: per loro non è una visione facile, ma di grande intensità.
La cosa migliore, trama
Mattia ha 17 anni. Nato e cresciuto in una provincia post-industriale del nord Italia, è figlio di un sindacalista vecchia maniera e di una casalinga iperprotettiva. Sensibile e fragile, ma anche rabbioso, si esprime attraverso la musica hip-hop in un contesto di difficili rapporti sociali e familiari. La morte improvvisa del fratello maggiore inasprisce le sue difficoltà, alimenta un lacerante senso di colpa e avvia un periodo di grandi cambiamenti. Mattia lascia la scuola, comincia a lavorare in una fabbrica del luogo e abbandona la musica nonostante il suo talento. Alla ricerca di un senso più profondo dell’esistenza e tramite il suo collega marocchino Murad, si avvicina all’Islam. Grazie anche a un viaggio in Marocco e all’amicizia di Murad e di suo fratello Rashid, Mattia vede nella conversione all’Islam il passaporto per una vita più autonoma e ricca di senso. Ma questo non basta a risolvere i suoi conflitti interiori, quelli con la famiglia, coi colleghi e persino con i nuovi amici marocchini. Ferito da una delusione amorosa e in preda all’inquietudine, Mattia è sospeso tra la prospettiva di una vita normale e una pericolosa deriva. Quasi senza rendersene conto imbocca la strada di un progressivo isolamento e della radicalizzazione. Saprà resistere alla tentazione dell’estremismo?