Elisabetta Sgarbi torna alla regia con L’Isola degli Idealisti, dall’omonimo romanzo perduto di Giorgio Scerbanenco (pubblicato per la prima volta nel 2018 da La Nave di Teseo, per cui è uscita il 29 aprile la nuova edizione). Il lungometraggio, una produzione Bibi Film e Betty Wrong con Rai Cinema, è stato presentato in Concorso alla Festa del Cinema di Roma 2024 ed è ora in sala per Fandango. Al centro, la famiglia Reffi, nella cui villa al centro di un’isola approdano Guido e Beatrice, due ladri in fuga. Nel cast Tommaso Ragno, Elena Radonicich, Renato De Simone, Michela Cescon, Tony Laudadio, Mimmo Borrelli, Vincenzo Nemolato, Chiara Caselli, Renato Carpentieri, Antonio Rezza, Rossella De Martino e Hildegard De Stefano. Abbiamo intervistato la regista ed editrice.

Da cosa nasce l’interesse a trasporre sullo schermo (liberamente) le pagine di Giorgio Scerbanenco e in particolare quelle del romanzo L’Isola degli Idealisti?
È un romanzo cui sono molto legata, perché è stato il primo che ho pubblicato con La nave di Teseo, un inedito ritrovato. È stata una intuizione immediata: ho subito immaginato/visto l’Isola, l’acqua e la villa. E quasi subito, prima di tutto, ho visto Beatrice, la protagonista, Elena Radonicich. Vedevo troppe cose per non farci un film. Così, con Eugenio Lio, abbiamo iniziato a scrivere la sceneggiatura, prima che ci fosse un produttore, prima che lo sapessero gli attori.
Poi c’è il rinato, personale entusiasmo per Scerbanenco: a molti è noto lo Scerbanenco degli anni ’60, quello più legato al noir puro, di Duca Lamberti, di Milano Calibro 9. Ma la sua produzione è sterminata, e, parte dagli anni ’40, come L’Isola degli Idealisti, appunto: qui il noir si amalgama con una trama esistenziale, sentimentale anche.
Nell’Isola degli Idealisti c’è una potentissima presenza di personaggi femminili, a partire da Beatrice, ma anche Carla e Jole. In questi ritratti, che nel film abbiamo potenziato, c’è la grande modernità di Scerbanenco. L’Isola degli Idealisti è uno dei romanzi più originali di Scerbanenco: il delitto è lo spettro, la paura che accada. Al centro c’è l’idea del bisogno della trasgressione, della debolezza (o della forza) dei principi morali, della vita che accade e rompe i nostri schemi e li sovverte. Mi ha molto attratto tutto questo.
Che importanza ha avuto, secondo lei, l’opera dello scrittore non solo per la letteratura ma anche per il cinema italiano? Pensiamo in particolare al noir e a titoli come Milano Calibro 9…
Le traduzioni cinematografiche di Di Leo sono straordinarie. Nel film ne cito alcune inquadrature, ma solo per testimoniare la mia ammirazione. Anche per questa ragione, perché sono una fan di quei film di Di Leo, la scelta si è quasi naturalmente posata su uno Scerbanenco meno frequentato, meno noto, dove il noir è tinto di sentimenti, di riflessioni esistenziali, anche di melodramma. Scerbanenco è un autore modernissimo; oggi è perfettamente contemporaneo a noi, e forse il cinema lo ha capito per primo.
Al centro del film L’Isola degli Idealisti troviamo un singolare nucleo familiare alto-borghese che appare chiuso nella sua villa-microcosmo di arte e cultura parzialmente separata dalla realtà esterna. Che, comunque, irrompe attraverso i due ladri visitatori, muovendo e rivelando pulsioni, dilemmi e conflitti. Possiamo leggere in questo una riflessione sul rapporto tra diverse classi sociali, e segnatamente sul punto di vista e le contraddizioni di una certa élite intellettuale di ieri e di oggi?
Anche, certo. Ma non credo fosse la prima intenzione di Scerbanenco, e non era la mia. Ma quella interpretazione è legittima. In realtà sull’Isola degli Idealisti vive ognuno di noi, quando, per un trauma (come Celestino/Tommaso Ragno), per pigrizia, per comodità, ci costruiamo una bolla dentro cui vivere. La famiglia Reffi è per me un archetipo. E i due ladri – Beatrice (la mia amata Elena Radonicich, che è stata per me anche Micol Finzi Contini in un mio precedente lavoro) e Guido (Renato De Simone, una scoperta, una rivelazione) – non solo fanno scoppiare la bolla, sarebbe troppo facile: sono lo specchio che si mette davanti alla famiglia Reffi, che fa capire loro che quella bolla è già scoppiata, è una illusione. Questa dinamica esistenziale, questa geometria di personaggi implacabile di Scerbanenco, può essere tradotta come una lotta di classe. Ma secondo me c’è qualcosa di più profondo, che riguarda l’essere umano, le sue paure. E, in fondo, anche la profonda ironia dell’esistenza: perché in queste bolle scoppiate c’è anche molta ironia, di cui Antonio, il capofamiglia (Renato Carpentieri) è il campione. Nel lavorare su questo testo, a me interessava più l’esperimento psicologico ed esistenziale, che il tema sociale (che, pure, è presente, certo).
Un filo che sembra unire le seduzioni e i contrasti tra i protagonisti è quello del confine ambiguo tra la verità e il suo contrario: dalla “lezione sulla bugia” di Celestino a Beatrice ai molti giochi di inganni, segreti e confessioni tra i diversi personaggi. Che importanza ha questo tema nel film e come si lega alle suggestioni dell’ambientazione, pensando ad esempio agli esterni immersi nella nebbia e alla labirintica villa di passaggi segreti e sotterranei?
La Villa dei Reffi, quella del Film, nasce prima di scrivere il film. È una Villa che conosco e frequento da sempre. La sua conformazione, il suo parco, i suoi sotterranei, le sue porte sono la forma visibile della cerebralità dei Reffi, dei loro “idealismi”. Anche del loro modo di parlare: loro parlano come si snoda la casa, in modo barocco, labirintico. Volevo sembrasse una casa che si muove, “escheriana”. E poi è una Villa piena di specchi. Nello specchio passano tutti. A questi elementi si lega la bugia: tutti mentono in questo film. Tutti varcano il confine della legalità. Anche chi dovrebbe rappresentarla. Celestino lo sa che Beatrice mente, ma non gli interessano tanto le bugie che dice, gli interessa la radice delle menzogne di Beatrice. Perché lei mente. “La bugia è un desiderio – le dice Celestino – E solo il bugiardo può sapere se è davvero un bugiardo”.
Nel ricco e composito tessuto formale de L’Isola degli Idealisti, oltre alle opere d’arte figurativa, rivestono notevole importanza le musiche (che in alcune sequenze rubano letteralmente la scena alle parole). Ci racconterebbe la genesi e le intenzioni delle principali scelte musicali del film?
C’è anzitutto la figura di Antonio Reffi (il grande Renato Carpentieri), ex grande direttore d’orchestra. Lui è l’eterna ironia del film, le sue battute sono fulminanti e non risparmiano nessuno (come quelle di mio padre). Dalla prima all’ultima inquadratura. Ma anche lui è un idealista. Anche la sua bolla deve scoppiare.
A parte le belle musiche originali di Michele Braga, composte sulle immagini – e abbiamo dialogato molto -, ci sono dei brani classici che sono elementi narrativi. Vivaldi (eseguito da Ara Malikian), Schubert, Brahms, Strauss sono l’anima di alcune scene, cambiano il tono emotivo della storia, ne annunciano una svolta.
Le voci di Primavera di J. Strauss – un vinile messo da Beatrice che interrompe l’esecuzione di un Impromptu di Schubert – è un doppio, triplo ironico twist: Beatrice inizia la seduzione di Celestino e il Commissario irrompe sulla scena, e scopriamo i sotterranei, le bugie si moltiplicano. Tutto nella controllata gioia del valzer. La musica è dunque un elemento della trama. Io ho cercato di valorizzarla al massimo, giocandola su vari piani: registrazioni audio, esecuzioni in presa diretta, dentro il suono del super 8. E le opere d’arte costellano la casa dei Reffi, ognuna caratterizza la stanza dove il personaggio vive. La vergine di Wildt, poi, ha il potere di turbare la bugiarda Beatrice; i disegni del ladro Guido (che in realtà sono opere d’autore, di Giovanni Iudice) seducono Carla; la mappa della Villa (come i titoli) sono disegni di Emanuele Fior.