Luca Zingaretti: «Con Il Re mi rimetto in discussione»

L'attore racconta a Ciak il suo nuovo, controverso protagonista della serie Sky

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Luca Zingaretti racconta a Ciak il controverso personaggio di Bruno Testori che interpreta ne Il Re, la nuova serie Sky che riscrive il prison drama, così diverso da quello di Salvo Montalbano in cui si è calato per vent’anni. “Una storia senza eroi e senza retorica”, come la definisce il regista Giuseppe Gagliardi, che vedremo a partire dal 18 marzo, anche su Now.

“Non so come sia venuto. Sul set ho finito col perdere un po’ il polso di ciò che abbiamo fatto. Ma sono tanto felice di averlo fatto”. Occuparsi de Il Re e parlarne con il protagonista, Luca Zingaretti, significa innanzi tutto vivere due sorprese: La prima è vederlo (e finire presto con l’ammirarlo) in una prova d’attore in cui mette in gioco tutto sé stesso, calandosi con efficacia, sobrietà, e (ciò che alla fine conta di più) credibilità, nel ruolo di un funzionario dello Stato controverso e pieno di ombre, che stavolta non è facile da adottare e perdonare. La seconda è l’umiltà con la quale racconta questa esperienza, lui che è un “senatore” del cinema (ha all’attivo oltre 40 film) e davvero il re della serialità italiana, dall’alto dei vent’anni di successi ininterrotti nei panni del Commissario Montalbano, di gran lunga lo show più popolare, condiviso, duraturo dello nostro spettacolo. Parlarci, significa anche capire perché la conclusione di quell’esperienza gli ha dato la forza di rimettersi in gioco. E scoprire (altra sorpresa) quale è il prossimo passo del suo percorso artistico.

Chi è Bruno Testori?
E’ un uomo che in qualche modo si è perso: governa un carcere di massima sicurezza dove vengono ospitati i criminali più pericolosi del Paese e cerca di farlo nel miglior modo possibile, cercando di scoprire per conto dei servizi segreti cosa bolle in pentola. Lui pensa che sia un lavoro sporco che però qualcuno deve fare. Ma il potere assoluto all’interno del carcere gli fa perdere la misura. Usa modi sempre meno ortodossi, si considera un po’ come un quarto grado di giudizio: “se ti adegui sopravvivi, altrimenti te la faccio vedere brutta”. Il fatto è che non crede di fare qualcosa di sbagliato. Pensa che il fine giustifichi i mezzi e nella foga di seguire i suoi ideali, si è smarrito. E non calpesta solo i detenuti ma anche la sua vita, che nel frattempo è andata a rotoli. La serie si apre con qualcosa che sfugge al suo controllo. E lui, che dal controllo è ossessionato, va in pezzi.

Ti ricorda qualche personaggio in particolare?
Può far venire in mente, con le dovute proporzioni, il generale Kurtz interpretato da Marlon Brando in Apocalypse Now.

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Se Testori si è perso, l’impressione è che ne Il re tu invece ti sia ritrovato al meglio come attore, in un ruolo pieno di chiaroscuri. Li stessi visti anni fa in film come Vite strozzate o Il branco o più di recente in Perez. Dopo la fine del lungo viaggio di Montalbano hai voluto rimettere tutto in discussione?
Nei vent’anni del Commissario il mio impegno è stato di cambiare all’interno del recinto in cui si muoveva il personaggio. Avevo la fortuna pazzesca di potermi confrontare con Andrea Camilleri, che continuava a scrivere nuove storie. La sfida era riuscire a rendere il suo evolversi. Credo di aver fatto un buon percorso anche all’interno dello stesso ambito.

Poi Montalbano è finito. E potevi vivere artisticamente di rendita. Invece hai girato Il Re
Archiviata quella storia, mi sono reso conto che la sua fine, ma anche il lockdown, mi avevano dato grande energia, che volevo riversare in qualcosa di diverso. Ero attirato dalla serialità che proponeva Sky. E’ il network che ha creato le cose più nuove, a volte scioccanti. Perché non proviamo a raccontare una cosa che ci riguarda, magari poco corretta politicamente, ma che porti in scena un personaggio con istanze e confitti che potrebbero essere i nostri? In fondo, chi di noi non si è mai chiesto “io cosa avrei fatto al posto di quello là?” E quando ti poni queste domande, ti guardi dentro e non sempre ti piace ciò che vedi. Spero che ci possa essere una identificazione dello spettatore con i conflitti che quest’uomo vive.

Testori è un personaggio complicato, teso, profondo. Riuscivi a lasciarlo sul set, alla fine della giornata di lavoro?
Quando affronti un personaggio, è vero che ti immergi nella sua energia, nel suo modo di pensare, sentire, reagire. Io, poi, cerco sempre di avvolgermi nella mentalità dei personaggi che interpreto. Pensa che se mi vengono in mente pensieri, suggestioni, me li appunto immediatamente. E’ come se mi vestissi dei panni che portano il loro odore. E Bruno Testori me lo sono sentito molto addosso. Però penso anche che l’attore non debba giudicare chi interpreta, semmai volergli bene e metterselo di fronte come un analista che affronta qualcuno che sta soffrendo e deve cercare di comprenderlo. E’ anche un modo di difendersi, di non lasciarsi invadere troppo. Ho cercato di vivere Bruno, e l’ho compreso. Grazie alla grande autenticità che gli sceneggiatori sono riusciti a dargli.

La serie è molto coinvolgente. Se ti chiedessero di tornare nei panni di Bruno Testori, te la sentiresti?
Non so giudicare come sia venuta, figuriamoci se posso immaginare se ne faremo un’altra! In linea generale, nel panorama della serialità non mancano titoli nati per essere già completi e che poi, entrati nel cuore del pubblico, hanno trovato nuovi spunti per proseguire. Di fronte a una possibilità del genere, sposerei il progetto con impegno. Ma mi sembra più che prematuro!

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Certo che Bruno Testori non è davvero un personaggio “positivo”. E tu sei abituato ad avere dalla gente comune riscontri straordinari, siamo stati tutti tifosi di Montalbano. Come immagini le reazioni del pubblico vedendoti in un ruolo così diverso?
Di questo non mi sono mai curato. L’attore propone storie, non può vivere pensando ‘voglio piacere’, altrimenti il mestiere diventa una noia mortale. Mi sono formato in un’altra scuola: devi in qualche modo stimolare una riflessione. Ho la presunzione di credere che se ho creato un legame con gli spettatori, non è per avergli raccontato sempre la stessa storia, bensì per aver provato a dir loro: “Sentite: racconto storie in buona fede, che penso siano interessanti. Se vi va di seguirmi, seguitemi”. Spero l’abbiano compreso. E che mi seguano anche in questa avventura.

L’ultima domanda si lega all’esperienza di regia che hai fatto per concludere il ciclo di Montalbano dopo la scomparsa di Alberto Sironi. Ti ci vedi a dirigere un film o una serie?
La verità? Erano dieci anni che avevo questa idea. Non mi decidevo mai. Il mio solito understatement. Poi, di botto, quando il grande Alberto è scomparso, mi sono trovato a dover dirigere in pratica tre film uno dietro l’altro! Mi hanno tirato un calcio nel sedere e detto “nuota“. Ma ne ho ricavato una sensazione di scoperta e di pienezza, come se non avessi fatto altro negli ultimi vent’anni. Non credo che questa esperienza mi sfuggirà. Mentre a teatro è l’attore che va in scena e decide come raccontare la storia, al cinema è il regista che mette gli accenti che fanno la differenza. Sto scrivendo progetti come regista. Voglio provare a raccontare le storie che mi hanno colpito.