È stata Perfidia, la villain nella serie di film del fenomeno per giovanissimi Me contro Te, ma la sua dimensione ideale è il teatro: Antonella Carone, classe 1988, barese, ha frequentato la libera Università di Alcatraz di Dario Fo, Franca Rame e Jacopo Fo, un’esperienza che ha cambiato il modo di vivere il lavoro di attrice. È fra i protagonisti di Malamore, diretto da Francesca Schirru, nelle sale dall’8 maggio con 01 Distribution, in cui interpreta Carmela, moglie di Nunzio (Simone Susinna), un capoclan, in procinto di uscire dal carcere da dove continua a gestire i suoi affari illeciti grazie anche all’aiuto di Carmela. Mary (Giulia Schiavo), la sua amante, nel frattempo ha deciso di rifarsi una vita, di liberarsi da quella relazione tossica, ma questo scatenerà l’ira e la vendetta di Nunzio. Abbiamo intervistato Antonella Carone che ci ha raccontato del suo controverso personaggio e dei suoi progetti teatrali.
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Carmela è una donna di mafia, spietata, fa di tutto per compiacere la sua sete di potere e soprattutto Nunzio, ma ha anche un lato molto tenero, spera di diventare quanto prima mamma, questo desiderio diventa per lei un’ossessione, come hai affrontato questo sua duplicità?
“L’ho affrontata con la consapevolezza che le contraddizioni fanno parte dell’essere umano, nel senso che noi siamo tante cose. Il confine tra bene e male è una spartizione di comodo, non esiste, per cui nel momento in cui si affrontano dei personaggi come Carmela tu entri in quella che è la complessità dell’essere umano. Ci può essere grazia anche nella meschinità, e esserci meschinità in personaggi apparentemente elevati. Con Carmela torno a raccontare il ruolo di una villain, molto diversa da Perfidia, con un’umanità fortissima, pur macchiandosi di crimini atroci, pur essendo una donna di mafia, ma mossa da un sentimento forte, travolgente, da un desiderio sincero, ma anche frutto della necessità di dare un erede a un boss criminale. Quindi quello che si scontra in questa donna è da una parte l’autenticità di un sentimento e dall’altra le storture di un sistema, che poi è quello che è il senso generale di Malamore, che altro non è che questo conflitto constante tra i sentimenti e le loro degenerazioni disfunzionali”.
È una storia che racconta un amore tossico, come suggerisce il titolo, più che il contesto mafioso…
“Per me Malamore è un film sulle relazioni disfunzionali, la Sacra Corona Unita è solo un contesto estremo all’interno del quale determinate dinamiche si estremizzano ancora di più. Le dinamiche tossiche fuori da quel mondo stanno nostro malgrado in piedi da sole. Per me Malamore non è un film di mafia, gli affari criminali sono davvero molto sullo sfondo, poi questa è la mia lettura, il punto forte del film sono le relazioni che legano i personaggi”.
Il filone mafioso, criminale, al cinema, ma anche nelle serie tv, ha sempre molto successo, cosa ci attrae del male secondo te?
“Ci attrae tutto quello che non conosciamo o che in qualche modo ha a che fare con il sentimento di morte, andando a pescare nella psicanalisi le due pulsioni che animano i comportamenti di ciascuno di noi sono eros e thanatos, amore e morte, questo ha a che fare con qualcosa di ancestrale, che porta la nostra curiosità verso determinate storie, perché evidentemente noi abbiamo bisogno di andare a ricercare nelle narrazioni che ci circondano un conflitto più archetipico che è dentro di noi”.
Quest’anno hai portato a teatro un monologo dal titolo 88 Frequenze, scritto da Eliana Rotella, che racconta la storia dell’attrice Hedy Lamarr, che nel giugno del 1941 presentò all’ufficio brevetti un complicato sistema di comunicazione segreta che negli anni si è dimostrato essere la base del moderno wi-fi, senza che questo le fu mai riconosciuto, se non troppo tardi.
“La tournee si è conclusa ma è pronta a ripartire in estate e nella prossima stagione teatrale insieme ad altri progetti. Nell’ultimo anno è stato forte portare in scena la storia di questa donna alla quale è stata disconosciuta la più grande invenzione del millennio, che è quella alla base del moderno wi-fi e delle telecomunicazioni. Hedy Lamarr, al di là di questa invenzione, per me è un simbolo, io non ho voluto raccontare semplicemente la sua vita, per quello ci sono le biografie, compito dell’arte, del racconto teatrale è quello di tirar fuori quello che sono i significati profondi e universali che ci sono dietro ogni storia, in modo che possano parlare a tutti. I temi dello spettacolo su Hedy Lamarr sono l’identità e la credibilità, che sono tematiche di cui adesso si parla tantissimo. Oggi come 100 anni fa viviamo in un’epoca in cui devi essere riconoscibile, credibile, cerchiamo una sorta di approvazione generale da parte degli altri. Hedy Lamarr era considerata la donna più bella del mondo e basta, era inammissibile che potesse essere anche un genio dell’ingegneria. E oggi nell’epoca dei social, del personal branding, tutti dobbiamo essere performanti, sembra che non ci sia spazio per la complessità, ma ognuno di noi è tante cose insieme. Il senso dello spettacolo è quello di andare contro le categorie, contro le etichette che ci mettono gli altri e che ci mettiamo, e a far erompere in tutta la sua forza la molteplicità che ci abita, è un inno a non semplificare la complessità, perché la complessità è bellissima”.
Qual è la lezione più importante che ti hanno insegnato i tuoi Maestri Dario Fo e Franca Rame?
“La più grande lezione è artistica e umana insieme, ho capito che i grandi come Dario Fo e Franca Rame non ti insegnano come fare questo mestiere, ma chi essere mentre lo fai. Dario una volta mi disse: ‘Se vuoi fare questo mestiere devi farlo’, mi stava insegnando in quel momento a non aspettare, mi stava spiegando l’importanza della necessità di dire qualcosa, di fare qualcosa, di dare ascolto all’urgenza. Visto che il teatro è la mia vita, la mia dimensione quotidiana, quella è stata per me la chiave di volta di questo mestiere, cioè quando io ho compreso che non dovevo aspettare una chiamata, che io questo lavoro avrei potuto farlo sempre, in qualunque contesto, anche autoproducendomi, l’importante è che avessi una storia da raccontare con necessità e onestà, mi è cambiata proprio la visione. Noi facciamo questo mestiere perennemente in bilico, votato al precariato, ma Dario in quel momento mi stava ricordando che non bisogna pensare al precariato ma rimboccarsi le maniche, appropriarsi della dimensione pratica, del fare. Lui aveva un testo tra le mani, ‘Coppia aperta, quasi spalancata’, e io a distanza di un anno e mezzo ho prodotto il mio primo spettacolo che era ‘Coppia aperta, quasi spalancata reloaded‘, che era una sorta di riscrittura attualizzata, ed è lì che è iniziata la mia carriera autoproduttiva. Oltre a far parte di compagnie da scritturata io ho sempre lavorato con me stessa e per me stessa, tanto è vero che all’epoca formai una prima compagnia che poi si è sciolta, e da tre anni a questa parte faccio parte con Tony Marzolla e Loris Leoci della compagnia Uno&trio, e continuiamo a portare in giro in tutta Italia i nostri spettacoli. Quindi anche laddove non arriva la chiamata o il provino io sento che questo mestiere lo faccio perché lo pratico quotidianamente”.
Dopo Malamore dove ti vedremo?
“Per adesso posso dirti che prossimamente uscirà Carmen è partita per la regia di Domenico Fortunato con protagonista Giovanna Sannino, sempre coprodotto da Altre Storie e Rai Cinema”.