Come sempre, la festa degli innamorati stimola tanti a tirare fuori la parte più dolce di sé, ma altrettanti a ‘celebrare’ il San Valentino in maniera inusuale, uguale e contraria, magari con qualche bell’horror. O thriller, come lo Strange Darling che la spagnola Vertice360distribuisce nei cinema italiani dal 13 febbraio. Uno dei titoli “rivelazione” dell’anno appena concluso, definito “straordinariamente intelligente” e addirittura un “capolavoro geniale” da un esperto come il Maestro del Brivido Stephen King. Scritto e diretto dall’esordiente JT Mollner e interpretato da Willa Fitzgerald e Kyle Gallner, con Ed Begleyjr e Barbara Hershey,il film viene descritto come “ricco a livello narrativo e visivo” e girato interamente in 35mm.
Tra i primi a essere coinvolti nel progetto dal regista, a curare l’universo visivo del film troviamo un nome importante, in vesti inusuali, almeno in parte, l’attore Giovanni Ribisi di Salvate il soldato Ryan, Avatar e Lost in Translation, qui tra i produttori ed eccezionalmente (sebbene si sia già misurato con il ruolo in un corto e qualche video musicale) come direttore della fotografia. Nell’arco di sei capitoli disposti in ordine non lineare, Mollner si diverte a stravolgere le aspettative del pubblico, alterando le barriere tra i generi in questo thriller adrenalico che sconfina nell’horror, con sfumature di true crime e che, nella sua corsa vertiginosa verso l’epilogo, viene contaminato da suggestioni prese a prestito addirittura dal romance. Perché niente è davvero come sembra.
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IL FATTO
Nella natura selvaggia dell’Oregon, l’implacabile ‘Demon’ (Kyle Gallner) no dà scampo alla donna ferita (Willa Fitzgerald) che sta braccando. Lei fa del suo meglio per sfuggire al suo inseguitore, ma diventa sempre più debole e disperata ogni minuto che passa. E anche riparare nella casa di campagna di una coppia di anziani potrebbe finire con rivelare delle sorprese. In attesa di scoprire se l’uomo che la insegue riescirà a raggiungerla e a portare a termine la propria missione. È solo questione di tempo prima che cacciatore e preda compiano il loro destino, e che finalmente venga rivelata l’identità del letale serial killer noto come “E.L.”.
L’OPINIONE
Non che ne lesini, ma certo l’endorsement di Stephen King ha sempre il suo valore. E per quanto forse definirlo “capolavoro geniale” sia leggermente esagerato, la messa in scena ordita da JT Mollner è sicuramente notevole. Non tanto per l’originalità, in senso assoluto, ché già altri avevano raccontato storie semplici partendo dalla fine e la vicenda in sé non nasconde particolari sorprese, ma certo per la forma della narrazione e per come ha scelto di sfruttare la ricomposizione delle singole parti in cui è divisa.
Sei capitoli, attraverso i quali si sviluppa la storia – dall’incontro dei due protagonisti attraverso vari colpi di scena fino alla cruenta conclusione – e che vengono mostrati sullo schermo in maniera non lineare, a partire dal terzo e giocando con i cliché del genere e la figura della final girl. Una immagine dalla quale, lo stesso regista ha ammesso di esser stato attratto e alla quale si è ispirato (“continuavo a vederla e sapevo che era un tropo, ma il modo in cui la vedevo la rendeva unica“).
Approfittando in maniera intelligente dell’abitudine dello spettatore medio ai cliffhanger della serialità televisiva e condendo il tutto con un commento musicale riadattato ad hoc dalla cantante Z Berg (ex the Like), che ha pescato dal proprio repertorio le canzoni giuste (da “Love Hurts” a “Better the Devil“) basandosi sulla “connessione psichica” stabilita con il regista, con il quale aveva iniziato a confrontarsi addirittura prima del Covid.
E soprattutto senza restarne schiavo, o farsene condizionare troppo, vista la capacità di gestire la mole di indizi falsi sparsi nei sei capitoli, tra coppiette di anziani (condannati dal colesterolo, più che dai rischi che ogni serial thriller comporta) e una sarcastica condanna di perversioni sessuali ed eccessi vari (e un pizzico di ironia sul dilagare dell’ideologia ‘woke’). Molto fa il montaggio, ovviamente, e non solo per ovvi motivi strutturali, ma anche per l’uso delle inquadrature, anche se non manca quel pizzico di sadismo che un appassionato di horror come JT non poteva risparmiarsi, tanto più volendo realizzare, per citare il film, “qualcosa di romantico, come una gola tagliata”. Un mix riuscito, insomma, al netto di qualche passaggio non del tutto giustificato, alcuni dialoghi forzatamente ‘duri’ e un calo di ritmo nel finale.
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Un misterioso killer e un intreccio che va via via dipanandosi sono anche nel DNA di Identità del 2003, diretto da James Mangold (fresco di nomination all’Oscar per A Complete Unknown), comunque più duro dell’analogamente ‘corale’ 7 sconosciuti a El Royale del 2018 (secondo e ultimo film del Drew Goddard di Quella casa nel bosco), ma se cercate violenza e innocenza perduta, perché non mettere ‘in lista’ film come il Better Watch Out del 2016, il Malvagi (Villains) del 2019 e l’ottimo Una donna promettente del 2020.