The Book of Vision, intervista al regista Carlo Hintermann

Incontro con il regista del film che ha aperto la 35ma Settimana della critica a Venezia 77

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The Book of vision

The Book of Vision è stato il film d’apertura della 35ma Settimana della Critica di Venezia e dal 26 febbraio è disponibile in streaming VOD su Chili, distribuito da RS Productions. Produzione internazionale che vede  Terrence Malick produttore esecutivo, il film è l’opera prima di finzione di Carlo Hintermann, che proprio a Venezia esordì nel 2004 con un documentario, dal titolo Rosy-fingered Dawn, proprio su Terrence Malick. Film magnifico, come affascinante è The Book of Vision. Ne abbiamo parlato direttamente con il regista, classe 1974 e figlio d’arte di padre omonimo, che lavorò tra gli altri con Rossellini, Risi, John Huston e Martin Ritt.

Carlo Hintermann, partiamo dal filo che lega il suo esordio con The Book of Vision: Terrence Malick.

Nasce tutto dal documentario che ho girato su di lui e che è continuato in maniera ininterrotta nel corso degli anni. Ho diretto parte della seconda unità di The Tree of Life, ma negli anni gli ho parlato dei miei lavori e delle mie idee e oggi siamo arrivati a The Book of Vision.

Un film anomalo per il mercato italiano, un fantasy distopico che viaggia nel tempo e nello spazio.

Fantasy distopico è una definizione interessante e che combacia perfettamente con il film. Una delle maggiori fonti d’ispirazione per The Book of Vision è la struttura narrativa dei videogiochi e la possibilità di integrarla in un prodotto cinematografico. È una forma di fruizione nuova che mi ha permesso di muovermi con grande libertà tra futuro, presente e passato, ma anche tra luoghi e diversioni diverse.

the book of vision

The Book of Vision è un film dalle molte suggestioni e fonti d’ispirazione, da Labyrinth a Christopher Nolan.

Mi riconosco di più in Nolan, ma c’è molto di Labyrinth e di quei film che mi hanno formato da ragazzo. La mia visione ha sempre teso a questa sintesi tra cinema d’autore e cinema di genere, senza distinzione. Quello che mi interessa del fantasy degli anni Ottanta e Novanta è la sua grande capacità di creare effetti speciali di fronte la macchina da presa, lavorando sul design e i costumi. Abbiamo lavorato molto su quest’aspetto, insieme alla solidità dell’impianto narrativo. Grandi autori come Raul Ruiz e Manoel De Oliveira hanno costruito tutta la loro carriera senza pregiudizi di genere, sperimentando e creando un linguaggio cinematografico. Nel mio piccolo ho cercato di farlo anche io.

Come nasce la storia di The Book of Vision?

Dal mio incontro, quando studiavo per un esame ai tempi dell’università, con un medico del ‘700, realmente esistito, che ha rivoluzionato la mia visione della medicina. A quei tempi non si mettevano le mani sul corpo, bensì si ascoltavano le storie dei corpi raccontate dagli stessi pazienti. Superare il confine della pelle non era neanche un’ipotesi, erano quasi più degli psicanalisti. Ho voluto fare di questo medico uno dei protagonisti messo a confronto con un medico moderno, una donna che finisce così con il riconsiderare il rapporto e la percezione del proprio corpo.